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Manfredoniani (n)e(i) dintorni: I dauni settentrionali (I)

AUTORE:
Ferruccio Gemmellaro
PUBBLICATO IL:
4 Ottobre 2011
Cultura //

Treviso. Piazzetta del Monte di Pieta La colonna della vergogna (Ph: FG)
Manfredonia – GRAZIE alla collaborazione con StatoQ, mi pregio di dare inizio al remake della rubrica-indagine sui cittadini di Manfredonia e dintorni residenti nel Veneto, pubblicata a mia firma, e con una buona popolarità, sul Corriere del Golfo agli inizi del millennio. Questo rifacimento a distanza di un decennio, mi è stato suggerito dalla questione dell’intolleranza razziale nel Veneto, che è tornata prepotentemente d’attualità a seguito della programmazione nelle sale cinematografiche del film Cose dell’altro mondo di Vincenzo Patierno, applaudito a Venezia e fonte di polemica in queste terre, luoghi del ciak. In premessa, descrivo lo scenario storico con il quale i nostri paesani di lassù avevano dovuto fare i conti e, sovente, confrontarsi in maniera drammatica.

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Razza Piave e razza inferiore. Il Veneto, il trevigiano in particolare, o meglio, la Marca trevigiana non è mai stata attracco migratorio di massa per gli uomini del mare sipontini. Si privilegiavano terre lombarde e piemontesi, dove, dalla fine del conflitto mondiale, c’era esigenza di manodopera nelle fabbriche e nella ricostruzione edilizia; e sono state giusto quelle maestranze a renderle, oggi, regioni dall’economia trainante, altresì con la collaborazione dei veneti, i terroni del nord, com’erano definiti a Torino, costretti ad emigrarvi dai loro campi d’estrema miseria.

Nel Triveneto, la regione più militarmente presidiata d’Italia, erano sempre approdati di massima cittadini in uniforme delle tre Armi, forze di polizia, professori, insegnanti e impiegati, a colmare, fortunatamente, quei posti vacanti e mai richiesti dai nativi, i quali preferivano andare subito a lavorare piuttosto che procurarsi il pezzo di carta. Agli inizi degli anni settanta, a Silea di Treviso, un comune di circa diecimila abitanti, in cui avevo svolto mansione di cronista e di consigliere comunale, tanto per fare un esempio d’esperienza diretta, gli studenti che frequentavano le superiori si potevano contare a memoria, per non parlare degli universitari, uno sparuto gruppetto.


Al Sud, invece, le aule traboccavano.
Non avete nulla da fare, andate a scuola solo per non oziare – era il reiterato giudizio dei veneti – e poi vi diplomano con ottimi voti, mentre qui sudiamo da morire per almeno una sufficienza. Spiegateci un po’ come fa un professore meridionale a capirci… a capire i nostri ragazzi che non parlano correntemente l’italiano. Fu allora che ebbi il dubbio che gli insegnanti trevisani, e altri del posto, si esprimessero in classe col loro idioma territoriale; d’altronde; ciò mi era suffragato da alcune circostanze in qualità di presidente di consiglio d’istituto a Venezia e Treviso, quando alcuni docenti si lasciavano ghermire dal dialetto, incuranti delle presenze foreste.

Poi, grazie anche al gruzzolo risparmiato dai loro stessi emigrati rincasati, cominciarono a sorgere piccole e medie imprese a conduzione familiare o quasi, una mappa vincente per il progresso del Nord-Est, trasfiguratosi in un’operosa avanguardia nazionale ed europea. Un boom che ha prodotto, e non poteva accadere diversamente, dal momento che era mancato un serio piano di previsione, uno straordinario viavai di mezzi d’ogni genere sulle strade, non ancora del tutto sorretto da adeguate ristrutturazioni viarie, vedi gli smisurati ingorghi a Mestre e sulla direttrice Venezia Milano, aggravati nei periodi nebbiosi.

Gli imprenditori pionieri, con l’esperienza maturata altrove, intuirono che occorreva formare culturalmente i loro figli, prima di lanciarli nel mercato, e pretesero che si procurassero quel pezzo di carta. Non tutti, però, ebbero l’opportunità di far carriera nelle ditte paterne o di famiglia o d’amici, e adocchiarono impieghi pubblici e privati, ma li trovavano già occupati dai foresti napoletani (nella loro tradizione culturale, erano fermi al tempo dei Borbone, giacché definivano napoletani tutti i cittadini del sud) e fu guerra. Una politica di grave intolleranza fomentata dalla Liga Veneta, con i suoi slogan: Fora i terroni! Fora i maestri terroni par ignoransa!

Questo fu anche il senso di un’intervista da me rilasciata, il 9 dicembre del 1986, per un noto quotidiano nazionale ‘Il Messaggero’. Al giornalista Michele Concina, giunto in Veneto per un’indagine sull’intolleranza Nord Sud, ebbi lo spazio per ribattere ciò che nove anni prima non avevo maturato. Con il rallentamento del boom, i giovani veneti ricominciano a considerare appetibili quei posti di lavoro pubblici che da tempo disprezzavano. E li trovano occupati dai meridionali, che invece non avevano scelta.

Eclatante l’intervento di una sedicente Maria Pia Forcolin apparso sul Gazzettino dell’allora direttore Gustavo Selva, che lo pubblicò, nella convinzione che fosse un’opinione, se non generalizzata, almeno sintomatica del tessuto sociale, quando, invece, era tutt’altro: una provocazione politica studiata a tavolino – che tanta parte del popolo veneto, quella non animata dai registi occulti, non volle giustificare – e che avrebbe aizzato irresponsabili e pericolosi burattini. È difficile asserire che furono unicamente delle coincidenze i casi d’intolleranza, echeggiati in stampa nazionale, come quel ragazzo, figlio di un uomo-radar meridionale, trovato in un parco del veneziano, con scritto sulla schiena denudata Terrone! O quelle auto che attraversavano velocemente i centri abitati dell’entroterra trevigiano, lanciando volantini Terroni negri d’Italia! e peggiori. Scriveva, tra l’altro, compitamente, la Maria Pia.


(Preambolo) – Un complotto diretto dalla mafia craxiana per contaminare la purezza della nostra razza veneta – razza Piave – per mezzo delle trasfusioni di sangue provenienti da individui di razze inferiori e degenerate (meridionali donatori di sangue). (Punto 3) deve essere impedito con una nuova legge o con la forza che svergognate ragazze venete sposino i terroni generando in tal modo figli bastardi. (Punto 5) l’insegnamento deve essere impartito in lingua veneta. (Punto 6) si deve cominciare ad agire non affittando loro case, rifiutandosi di vendergli il pane, il latte per i loro marmocchi, non celebrando matrimoni e funerali, eccetera, insomma facendo intorno a loro terra bruciata.

Era il 20 dicembre del 1983, l’altro ieri*. Certo, oggi, lo scenario è completamente mutato e molte lodi vanno assegnate al comportamento dei nostri lavoratori, che, come vedremo, hanno felicemente riacquistato la fiducia dei veneti, qualora ce ne fosse stato bisogno.

Le malelingue asseriscono che è la paura degli extracomunitari in casa che li convincono ad accantonare il problema della convivenza con i meridionali e che, prima o dopo, riaffiorerà. Resta comunque il fatto che un giovane del sud, con gli stipendi contrattuali, non ce la fa quassù a pagarsi un decoroso affitto e mantenere dignitosamente un’eventuale famiglia; solo un extracomunitario, con le sue umili abitudini ereditate dal terzo mondo, può farcela, a malapena e non per molto tempo ancora. Conclusi allora che \…\ il gemellaggio industriale Treviso – Manfredonia e, a quanto pare, con Matera, potrebbe risolvere drasticamente il problema, con l’augurio che, una buona volta, tutto sia fatto con intelligenza politica e davvero per il rilancio del meridione, al quale, l’unificazione italiana aveva strappato via finanche l’animo \…\

Ero già pessimisticamente realista.

* Lo scrivente consegnò denuncia alla Procura della Repubblica, ma non fu la sola, e, viepiù, sempre su quelle pagine del Gazzettino, fu pubblicata una sua contrapposizione d’etica giornalistica rivolta a Selva, dal titolo Come fare giornalismo? Frammenti di domande e una risposta provvisoria, ma quella definitiva non mi arrivò mai. Gustavo Selva, senz’altro per altri importanti motivi professionali, non durò più di tanto nella direzione dello storico e dignitoso quotidiano veneto.


ferrucciogemmellaro@yahoo.it

1 commento su "Manfredoniani (n)e(i) dintorni: I dauni settentrionali (I)"

  1. La definizione di “Colonna della vergogna”, data all’immagine che accompagna il testo, è del tutto personale, poichè si tramanda che ad essa erano legati, quale sanzione, gli insolventi. Costoro subivano così il ludibrio dai creditori e dei passanti “ligi alla giustizia”. La collocazione nella piazzetta del banco dei pegni non è allora casuale.
    Altre fonti, invece, asseriscono che è ciò che rimane di uno storico patibolo.
    FG

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