Lo scorso anno Renzi si è candidato alla leadership della coalizione di centrosinistra in vista delle elezioni politiche di febbraio 2013, ma ha perso il ballottaggio finale in favore di Pier Luigi Bersani. Il risultato delle elezioni è stato poi deludente per il Partito Democratico, che non è riuscito ad ottenere una maggioranza parlamentare autonoma e ha finito per entrare in una grande coalizione con il centrodestra. Questa nuova candidatura alla leadership del partito dovrebbe essere vista in quel contesto: per quanto Renzi confermi (spesso a denti stretti) il suo appoggio a Letta, ci sono pochi dubbi che il suo impegno nel Partito Democratico sia concepito come un primo passo per una futura candidatura a presidente del Consiglio, quando se ne presenterà l’occasione.
Figura carismatica, capace di attrarre i voti di settori diversi dell’elettorato e di catalizzare l’attenzione dei media, Renzi appare sempre più, in Italia e all’estero, come il protagonista emergente della politica italiana. Lo scorso luglio, causando il malumore di Letta, il cancelliere Angela Merkel lo ha invitato a Berlino per un colloquio privato: una circostanza inusuale, se si dovesse considerare Renzi semplicemente come il sindaco di una città straniera di medie dimensioni. L’ex ambasciatore americano David Thorne ha avuto occasione, durante il suo mandato, di esprimere pubblicamente il proprio apprezzamento per Renzi in quanto rappresentante di una classe politica più giovane e dinamica.
Anche il suo successore John Phillips, stando a quanto riporta la stampa, sarebbe in buoni rapporti con il sindaco. Renzi è in campagna elettorale da almeno diciotto mesi, pressoché senza soluzione di continuità. La sua proposta politica si centra su di una combattiva retorica di modernizzazione e rottura con il passato (il suo slogan più noto, ora in parte abbandonato, prometteva di «rottamare» il vecchio gruppo dirigente del partito); un’attitudine pro-market in economia; una sollecitazione all’efficienza e al taglio dei costi della macchina statale e della burocrazia.
A dispetto del suo ruolo politico sempre più rilevante, tuttavia, Renzi ha avuto finora assai poco da dire sulla politica estera, e raramente è entrato nei dettagli per quanto riguarda i temi europei. La sua prima piattaforma politica nazionale, del 2011, era composta da «cento proposte»: solo tre di esse erano (vagamente) collegate a questioni di carattere internazionale. Nei discorsi principali delle sue campagne elettorali, al mondo al di fuori dell’Italia non sono mai stati dedicati più di tre minuti.
Qualcosa di nuovo è emerso nella piattaforma per le elezioni primarie di quest’anno, dal momento che una delle sue sezioni principali è dedicata all’Europa. Come si vedrà, tuttavia, è difficile sfuggire, leggendola, la sensazione di un messaggio ancora piuttosto generico. Le linee essenziali della visione del sindaco non sono sorprendenti: Renzi è un europeista e un «amico degli Stati Uniti». Verso questi ultimi mostra un legame di natura anche emotiva. Renzi cita spesso Robert Kennedy come suo modello politico, e, richiesto una volta di esprimere un’opinione su Barack Obama, ha risposto di essere «ancora emozionato» al ricordo della sua stretta di mano con il presidente Usa.
Per quanto riguarda l’Europa, il discorso di Renzi segue due filoni. Da una parte, il sindaco sostiene che la Ue, spesso vista come un’autorità tecnocratica intenta a imporre pletorici regolamenti e stretti controlli sulle politiche nazionali, dovrebbe invece proporre una visione ai propri cittadini: lo sviluppo futuro verso gli «Stati Uniti d’Europa». In questo modo Renzi si inserisce in una tradizione italiana di autoproclamata fedeltà agli ideali del federalismo europeo, e appoggia alcuni dei corollari di questa idea (elezione diretta delle alte cariche della Unione, maggiori poteri indipendenti per la Bce, rafforzamento dell’identità europea attraverso la promozione di un «servizio civile volontario europeo»).
Allo stesso modo, egli sostiene la necessità di una politica estera comune più efficace (ha descritto gli anni di Catherine Ashton come Alto Rappresentante Ue come «un disastro»), che dovrebbe essere sostenuta sul lungo periodo anche dalla costruzione di una scuola unitaria di diplomazia europea. A questo ambizioso insieme di proposte non sembra tuttavia affiancarsi uno schema per l’attuazione; ciò in un momento in cui, in Europa, anche progetti più modesti che mirano a rafforzare e rendere efficace l’unione economica e monetaria restano ancora bloccati. La soluzione di questo problema non risiede, secondo Renzi, in una strategia coordinata dei paesi dell’Europa meridionale per rivedere il meccanismo di gestione della crisi. Il secondo filone del suo discorso europeo, infatti, vede l’Italia (da sola?) superare le proprie difficoltà interne, recuperare la propria credibilità internazionale e proporre con forza il proprio punto di vista a Bruxelles e altrove. Non dovrebbe più essere l’Europa a indicare all’Italia cosa fare, sostiene lo slogan, è il momento che «noi» iniziamo a proporre all’Europa la nostra agenda.
Non sorprende che alcuni osservatori abbiano giudicato questo schema piuttosto ottimistico. Alla UE si rimprovera anche un ruolo troppo debole nel Mediterraneo – un tema cruciale per la politica italiana contemporanea. Renzi ha recentemente chiesto un approccio comune alla questione immigrazione (ma non sembra avere commentato l’iniziativa «Eurosur»). Sensibile al tema dei diritti umani, ha spesso posto l’attenzione sull’evoluzione incerta delle Primavere Arabe, e ha invocato una più attiva presenza europea nel dialogo con la regione.
I maggiori elementi di discontinuità rispetto alla tradizione del centrosinistra italiano possono probabilmente essere individuati nelle dichiarazioni di Renzi sulla politica mediorientale. In un dibattito del 2012, Renzi ha indicato nella politica dell’Iran la «madre di tutte le questioni» nell’area: non si è concentrato, tuttavia, sulla questione nucleare, ma ha ricordato i movimenti di protesta «verdi» del 2009-10 e invocato iniziative a supporto delle forze liberalizzatrici presenti nel paese. Nella stessa occasione ha espresso riserve sull’approvazione da parte dell’Italia della richiesta palestinese di accesso alle Nazioni Unite come «stato osservatore»: una posizione piuttosto isolata nel centrosinistra, tradizionalmente abbastanza vicino alla causa palestinese.
Ci sarà un governo di centrosinistra guidato da Renzi nel futuro dell’Italia? Sebbene questo appaia plausibile come scenario di medio termine, la prudenza è come sempre consigliabile, dal momento che le variabili in gioco sono molte. Chi volesse comunque lanciarsi in ipotesi sull’azione internazionale di un simile governo, troverebbe probabilmente poche variazioni rispetto al corso tradizionale della politica estera italiana. È possibile attendersi un lieve spostamento pro-atlantista, così come una considerazione più attenta delle istanze israeliane nella politica mediorientale.
L’atteggiamento assertivo in Europa annunciato da Renzi andrà verificato su elementi più concreti, e la sua attenzione agli sviluppi politici della sponda sud del Mediterraneo appare al momento adatta a produrre soprattutto un numero consistente di tavole rotonde e incontri multilaterali, piuttosto che altri risultati (piattaforme politiche e dichiarazioni di Renzi finora non hanno dato spazio alle questioni essenziali del collegamento dell’Italia con i paesi della regione in termini di investimenti economici e forniture energetiche).
Molto rumore per nulla, quindi? Forse no. Il carattere piuttosto superficiale del discorso internazionale di Renzi, in effetti, dice molto dell’Italia di oggi e del suo ruolo internazionale. L’orizzonte di Renzi è principalmente locale. E, per quanto possa apparire paradossale, questo sembra rappresentare uno dei suoi elementi di forza. Renzi cita spesso i suoi risultati positivi come amministratore come prova della sua credibilità. I suoi sostenitori apprezzano in lui la distanza dalla «vecchia politica», contrapposta ai suoi collegamenti con settori imprenditoriali dinamici e di successo. Politica estera e politica europea sono menzionate brevemente come una sorta di esito naturale della ripresa interna. Quest’ultima dovrebbe emergere in forza di impegni virtuosi e al di fuori di ogni logica di interdipendenza: in seguito, l’Italia automaticamente «recupererebbe» un alto status internazionale.
Gli ultimi anni di Berlusconi sembrano avere lasciato in eredità un’ossessione per la «reputazione» del paese: una preoccupazione certamente giustificabile, ma anche un concetto che ha bisogno di essere specificato. L’esperimento tecnocratico di Mario Monti, d’altra parte, anziché favorire un clima politico più sobrio ha lasciato spazio a diffusi risentimenti contro i «vincoli esterni» alla politica nazionale. Come risultato, al dibattito politico italiano manca nella maggior parte dei casi una seria considerazione della ridefinizione del ruolo internazionale del paese, e del suo interesse nazionale, in un mondo che sta cambiando. A dispetto di una retorica che insiste molto sulla modernizzazione, l’ascesa di Matteo Renzi non sembra rappresentare un’alternativa a questa tendenza, e appare più adatta a rassicurare un paese in crisi che ad affrontare le sue sfide concrete.
Fonte: Il blog di LSE IDEAS
L’articolo di Michele Di Donato è stato pubblicato sul blog di LSE IDEAS, il centro per affari esteri, diplomazia e strategia della London School of Economics and Political Science. La versione originale, dal titolo “The rise of Matteo Renzi and Italy’s international role”, si può leggere a questo indirizzo.