Manfredonia (Fg), 6 febbraio 2023 – Da circa tre mesi a questa parte, ogni venerdì, il Corriere della Sera sta pubblicando “Le parole della filosofia”, piccoli volumi dedicati alle grandi categorie filosofiche. Sono previste in tutto venticinque pubblicazioni, di cui la prima è uscita il 18 novembre scorso. Fino ad ora le “parole” trattate sono state Verità, Bene, Bello, Libertà, Grazia, Dio, Conoscenza, Scienza, Legge, etc. Venerdì prossimo, 10 febbraio, uscirà un volume dedicato alla parola “Cura”, e ha come autore il filosofo di S. Giovanni Rotondo, Ferdinando Menga, professore ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, dopo che per anni ha studiato, lavorato come ricercatore e insegnato nella Università di Tubinga in Germania, autore di numerose e poderose pubblicazioni che ormai fanno testo nei dibattiti accademici e non.
Anche se dopo lunghi anni di dimenticanza, la categoria della “Cura”, sostiene Menga, sta tornando in auge nel lessico sia della vita quotidiana della gente comune sia di quello scientifico degli specialisti. Ciò si deve non solo grazie al filosofo M. Heidegger, il quale, nella sua opera più importante “Essere e tempo”, del 1927, riprendendo una poco conosciuta favola di Igino (I sec. d.c.), l’ha rimessa al centro della sua riflessione esistenziale (cfr. nel testo di Menga, pp. 36 e ssgg.), ma ancor più alla tragica esperienza della pandemia da Covid-19.
Infatti, quest’ultima ha rimesso al centro la necessità della cura nella misura in cui ci ha riportati alla nostra originaria condizione umana, caratterizzata, secondo il giudizio di Menga, da almeno quattro dimensioni: “la vulnerabilità, la fragilità, la relazionalità e l’interdipendenza” (p. 7). Il che ci induce a pensare che accanto a un’etica della giustizia è giusto collocare anche un’etica della cura.
Eppure la cura, sostiene il nostro, presenta una forte ambiguità, in quanto “fenomeno onnipresente, eppure, in qualche modo, occultato; costantemente sott’occhio e nondimeno dimenticato” (ivi). Nonostante ciò, la cura ha resistito alla lunga dimenticanza, per “riaffiorare di tanto in tanto e con intensità diverse in risvegli traumatici propiziati da eventi rivelatori” (p. 10), come è accaduto durante la pandemia.
Tale occultamento è avvenuto grazie all’imporsi della “hybris espansionistica del tecno-capitalismo oggi dominante” (p. 34), dove ai è affermata “un’idea di soggetto inteso quale individuo atomistico, autonomo e agente in base a una logica strettamente razionale e prestazionale, tesa al perseguimento degli interessi individuali” (p. 19).
La cura ha così finito per cedere non solo alla “dominazione conoscitiva e tecnica” (22), ma ha altresì creato nuove gerarchie, nuove opposizioni e nuove separazioni, come quella tra “la sfera domestica e la sfera produttiva (…) con un’inevitabile subordinazione gerarchica della prima alla seconda” (pp. 26-27), provocando conseguentemente “la divaricazione tradizionale fra valori pubblici e privati” (p. 27). Menga fa così emergere un perverso meccanismo, secondo il quale la rimozione del registro della vulnerabilità, avvenuta a favore di un “soggetto razionale e delle sue attività prestazionali ed economicamente produttive” (p. 30), ha implicitamente significato la corrispondente rimozione della cura (cfr. p. 29).
Di conseguenza si ha che la cura riemerge solo se con essa sopravvive il senso personale e collettivo della nostra originaria e strutturale vulnerabilità (cfr. pp. 31-33), e il fatto che, volenti o nolenti, tutti dipendiamo gli uni dagli altri, elementi questi che, invece, vengono puntualmente ignorati e rimossi dal dispositivo liberale e neoliberale oggi dominanti, che ci spingono a isolarci e a dividerci, se non addirittura a metterci gli uni contro gli altri.
Tuttavia, nonostante tutti i tentativi di mascheramento oggi in atto, la vulnerabilità è, e resta, insopprimibile, in quanto costituisce un tratto originario e permanente della nostra condizione umana, e, ignorarla, è una delle grandi bugie con le quali i poteri forti del nostro tempo, specie quelli economici, tentano di zittirci e manipolarci.
Purtroppo – o per fortuna – la nostra originaria vulnerabilità “non può essere semplicemente cancellata dal mondo. Al contrario, poiché primordiale, essa circola di continuo e, all’occorrenza, è in grado di ripresentarsi in forma acuta e traumatica, proprio alla stregua di quanto Freud definirebbe un rimosso originario che immancabilmente ritorna” (p. 32). La pandemia ha provocato il ritorno di questo rimosso, rimettendo al centro la nostra costitutiva fragilità, unitamente alla nostra reciproca dipendenza (cfr. p. 35). Detto altrimenti, ciò che non riusciamo a fare per virtù, siamo costretti a farlo per necessità. Non per una scelta etica, frutto di una convinzione ideale, ma solo per paura.
Per questo, un compito che ci sta innanzi è fare passare la cura da una posizione periferica a una più cruciale, collocandola “al centro della vita umana”, come sostiene Tronto, citato da Menga (p. 34).
Posta la necessità della cura, Menga ha pensato bene di dedicare l’intero secondo capitolo all’esplicitazione della dimensione ontologica della cura, legandola alla radicale finitudine e originaria condizione di fragilità che ci caratterizza. Fare memoria della nostra vulnerabilità ci serve soprattutto per ridimensionarci e farci evitare qualsiasi forma di delirio di onnipotenza, che spesso, in modo davvero insensato e subdolo, ci invade, facendoci sposare la logica della hybris, la tracotanza, che tanti danni ha fatto nel passato e che ancora oggi continua a fare. Citando Heidegger, Menga ricorda giustamente che l’uomo è un essere “abbandonato a se stesso nel mondo in un abbandono che si rivela concretamente e originariamente nell’angoscia” (p. 38).
In altri termini, non solo la cura è il nostro modo di essere ma anche il modo con cui, e in cui, il nostro stesso essere (al mondo e con gli altri) si gioca, dove ognuno non solo si progetta ma anche “si fa”. La Cura, come dice la Mortari, in un bel suo libro dal titolo Filosofia della cura, citato da Menga, è una sorta di «fabbrica dell’essere» (p. 40). Con la cura diamo “forma” al nostro essere.
Questa mancanza rimanda a un altro aspetto della cura messo in evidenza dalla Mortari e ripreso da Menga: la nostra dimensione relazionale (p. 42 e ssgg.). Infatti, in quanto esseri-in-relazione-agli-altri e con-gli-altri, siamo consegnati gli uni agli altri alla cura reciproca.
Tuttavia l’approccio ontologico non soddisfa pienamente. Ed è per questo che Menga sceglie un approccio etico, utilizzando un altro filosofo del Novecento, E. Levinas (cfr. pp. 45 e ssgg.), il quale riconduce la precarietà non tanto alla struttura ontologica della mancanza, quanto piuttosto al fatto che ognuno è “convocato e interpellato dalla comparsa dell’altro nella sua sfera vitale” (p. 45).
Chi conosce Levinas sa che per questo filosofo “la responsabilità precede la libertà”. Questo significa che la cura è provocata da un appello che proviene dall’altro a cui non possiamo non rispondere. Ciò implica che il soggetto “si scopre esposto a un’eteronomia che precede l’autonomia”, come se fosse sottoposto ad un comando che precede la sua stessa libertà. Detto altrimenti, non sono libero di rifiutare, anche se poi di fatto sono libero di farlo, in quanto sono sottoposto all’ingiunzione dell’altro, a un comando anteriore alla mia libertà (cfr. p. 45). La conseguenza è che la libertà imploderebbe se non si compisse nella responsabilità. Ma ciò esige il passaggio da una concezione individualistica della libertà a una visione più squisitamente etica della stessa.
In tal modo, Menga spezza il meccanismo della pura reciprocità, in quanto il rapporto con l’altro, in cui si colloca la cura, non è simmetrico, né di tipo contrattuale, ma è fortemente a-simmetrico. E propone, sempre sulla scia di Levinas, di ripensare il soggetto, coniugandolo non più al “nominativo”, dove al centro è posto il proprio “io”, ma all’accusativo, dove al centro c’è il fatto che siamo “esposti” all’altro che ci interpella e ci convoca.
Su questa scia, la categoria della responsabilità risulta anch’essa alquanto stretta e riduttiva. Utilizzando il pensiero del filosofo, Bernhard Waldenfels, con cui Menga ha collaborato per molti anni in Germania, la cura risulta essere di natura “bi-vettoriale (p. 48), in quanto prende le mosse dall’altro e si dirige all’altro, come dimensione originaria dell’esistenza calata in un’inarrestabile oscillazione tra pathos e risposta” (p. 48), dove il pathos indica la nostra originaria vulnerabilità e la risposta rimanda al fatto che “Non dipende da noi se rispondere o meno; sta a noi decidere però come rispondere” (p. 48). Di conseguenza, “il confine tra buona, cattiva cura e incuria passa lungo il come della risposta” (p. 49). Cambia anche il rapporto tra cura e mancanza, in quanto “il soggetto si rivela precario non perché manca d’essere, ma perché esposto originariamente alle richieste dell’alterità” (ivi).
Volendo concludere questa breve presentazione di un libro, quale quello di F. Menga, denso e profondo, ricco di molteplici spunti, si può dire che la cura non ci rende sovrani e padroni delle situazioni di precarietà che siamo chiamati a gestire. Se così fosse , saremmo esposti alla terribile tentazione di poter speculare in vari modi sul dolore altrui, come la cronaca recente relativa agli abusi perpetrati in molte case di cura per anziani e non, ci ha dimostrato.
Non solo. Un altro spunto interessante di questo libro è il sostenere che la cura, che ci viene chiesta, non si limita solo al regno umano. Infatti, come scrive sempre Menga in un altro suo testo, dal titolo L’emergenza del futuro (p. 12) “tale appellatività è, per esempio, quella che ci giunge da ciò che erroneamente chiamiamo mondo animale, e della cui alterità, costantemente silenziata a causa del nostro soggiornare usurpatorio nel pianeta, non riusciamo a udire le invocazioni; salvo però poi avere modo di ascoltarle in momenti propizi di crisi, come quello palesatosi nel recente lockdown dovuto alla pandemia. Momento, questo, in cui, non a caso, proprio gli animali, liberi d’andare a riappropriarsi dei luoghi urbani lasciati da noi deserti, sono riusciti a lanciarci indirettamente un monito ricordandoci, in effetti, che il pianeta costituisce non il possesso esclusivo dell’umano, ma lo spazio di una coabitazione; insomma una «casa comune» – come ci ricorda l’Enciclica ambientalista Laudato si’ di papa Francesco” (p. 51).
In definitiva, non possiamo ignorare l’appello che da più parti – sia dal regno umano che da quello animale, fino ad arrivare al pianeta intero – ci a noi proviene come un’ingiunzione a rispondere con la cura. Non si può rispondere solo di sé, mettendo in campo forme finalizzate alla sola cura di questo proprio sé, a sua volta ridotto al solo proprio io. Ecco perché accanto all’etica della cura Menga propone anche una politica “della” cura (p. 58 e ssgg.), per illustrare la quale l’autore utilizza la categoria della “pluralità” della filosofa H. Arendt.
Lo dice Levinas in un famoso passo preso dal Talmud di Babilonia, dove si legge: “Se non rispondo io di me, chi risponderà per me? Ma, se rispondo solo di me, sono ancora io”. E allora, ecco che il problema è tutto qui: pensare erroneamente che, rispondendo solo di me, io sia davvero io. Invece, solo chi risponde ange degli e agli altri risponde veramente anche si sé. E non siamo chiamati a rispondere solo di chi, contemporaneo a noi, vive nel nostro presente, ma anche di chi ancora non c’è, cioè delle generazioni future, a cui è dedicato l’intero capitolo terzo (cfr. pp. 64 e ssgg.), allo scopo di avere col futuro non solo un “rapporto tecnico” (p. 67), ma anche “etico” (p. 67). Per sentirci responsabili non solo dell’oggi, che sta passando, ma anche del domani, il quale, anche se non-ancora-è, sarà possibile solo se già fin d’ora risponderemo di esso e ad esso, individualmente e comunitariamente, eticamente e politicamente.
Discuteremo di questi temi, io, S. Ecc.za Padre Franco Moscone e l’autore F. Menga, in convegno organizzato dai Medici Cattolici sez. di S. Giovanni Rotondo in collaborazione con l’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza. L’incontro si terrà il prossimo 20 febbraio, presso il Centro di Accoglienza Santa Maria delle Grazie di S. Giovanni Rotondo alle ore 18.30.
A cura di Michele Illiceto