Comincia la scuola. Tutti in fila, si riparte.
Ogni inizio è una sfida perché si pone sempre tra cose nuove e cose antiche, tra realtà sapute ed altre sconosciute. Può sembrare un qualcosa di ripetitivo, quasi una sorta di abitudine alla quale ci si adegua in modo passivo e rassegnato. Eppure, lo sappiamo tutti: la vita più che di arrivi è fatta di partenze. Anzi, il più delle volte di ripartenze. L’inizio non lo si improvvisa, al contrario va preparato, altrimenti sa di improvvisazione.
Tra i vari tipi di inizi quello della scuola costituisce un’eccezione, perchè ogni anno che ricomincia si scommette in modo sempre nuovo su talenti e attitudini, su potenzialità dormienti che aspettano solo di essere risvegliate e impiegate al meglio.
Ogni anno l’inizio della scuola rappresenta una sorta di cerniera tra l’estate che finisce e l’autunno che ormai è alle porte. Un rito che si rinnova e cha sa di messa in ordine sia per le famiglie, che ritrovano il loro ritmo abituale, sia per la città che riprende le proprie normali attività scandite da fiumane di bambini, ragazzi e giovani che ritornano a quella che è, o che almeno dovrebbe essere, la loro principale occupazione: lo studio.
Una volta si diceva che la scuola toglieva dalla strada, ma ora che le strade sono deserte di bambini e orfane di vicinato, forse dovremmo dire che il ruolo della scuola, al contrario, dovrebbe essere quello di rimetterci in strada. Di aprirci una strada. Di dirci che c’è sempre una strada. Che i sentieri non sono stati cancellati. Bisogna solo cercarli.
Quest’anno l’inizio della scuola ha un sapore diverso rispetto al passato, quando l’aria cominciava a contaminarsi dell’odore dei libri, dei quaderni e delle matite. Quando, come dice una famosa canzone di Lucio Battisti, “all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri”. Quando la grande preoccupazione degli studenti era sapere quali prof sarebbero rimasti e quali invece no, oppure quale diario comprare per poter riempire i momenti di noia e di vuoto durante le ore di lezione. Riti semplici che hanno accompagnato tantissime generazioni che aspettavano il suono della campanella per allinearsi al sistema dopo le scorrerie estive, o semplicemente per rimettere in ordine giornate il più delle volte disseminate tra frenetiche esperienze che alla sera ti lasciavano più vuoto di prima.
La scuola non come parcheggio di alunni spesso figli di famiglie distratte, ma come luogo dove riuscire a dare forma alla propria interiorità, o per dare spazio al pensiero libero e critico, alla immaginazione e alla creatività. La scuola per ritrovar-si, per interrogarsi intorno alle grandi questioni. Dove, grazie a qualcuno più grande di te, il quale, con la sua cultura e la sua esperienza, puoi cominciare a decifrare le tue emozioni, allo scopo di gestire con equilibrio i rapporti con te stesso e con gli altri.
Quest’anno tutte queste cose è come se stessero passando in secondo piano, perché l’attenzione si è spostata altrove e tutti sono concentrati su di una categoria soltanto: la sicurezza. A causa della difficile situazione creata dalla pandemia che tutti ormai conosciamo, la scuola è chiamata a ripartire tra mille incertezze. Si torna o non si torna? E con quali garanzie? Con quali modalità? In presenza o con la DAD (Didattica a distanza)? Molte perplessità e pochi punti fermi. Il tutto in un disorientamento totale. E a essere disorientati questa volta non è tanto la generazione degli studenti, quanto piuttosto quella degli adulti.
Eppure alla scuola non si può rinunciare. Il problema non è se si torna o meno, ma con quale stato d’animo ciò avverrà. Non è più soltanto una questione sanitaria, ma di come il sistema educativo italiano reggerà all’urto delle nuove esigenze poste in chiave pedagogica dal Covid. E’ importante anche chiedersi con quali aspettative e con quale percezione della realtà i ragazzi torneranno sui banchi di scuola. Per rispondere a tali interrogativi non basta più elencare in modo sterile gli obiettivi del fare scuola. Gli obiettivi non possono essere utilizzati come paravento per nascondere che le questioni poste da questo momento storico molto particolare sono ben altre.
Certo, gli obiettivi restano, ma vanno calati, come sempre, nel contesto storico-esistenziale di quello che stiamo vivendo. Non si può tornare a scuola o continuare a insegnare come si è fatto fino a prima della diffusione del Covid. Accanto alla politica, l’economia, la religione, questa pandemia ha ribaltato la scuola e il suo modo di porsi di fronte ai propri studenti. Il sistema formativo non può far finta che non sia successo nulla. Al contrario deve fare i conti con le nuove domande che questa pandemia ha posto in campo.
Pertanto, la prima cosa da fare tornando a scuola è riuscire a fare leva sulla voglia degli studenti di ritrovarsi e rincontrarsi. Chiarire che la distanza sociale non va intesa come distanza affettiva e relazionale. Che non siamo autorizzati a diventare più egoisti o, peggio ancora, più cinici. La scuola può fare questo perché non va ridotta s solo luogo di apprendimento, ma anche luogo di incontro con l’altro, con gli altri, con la realtà in tutta la sua complessità e imprevedibilità. Anzi con le mille forme di alterità, partendo da quell’altro che ogni alunno ha scoperto di essere durante questo lockdown.
L’obiettivo è sempre quello di aiutare ogni alunno a maturare in modo integrale la propria personalità e a costruire la propria identità non più in modo rigido, ma flessibile e aperto. E la scuola fa tutto questo in modo diverso rispetto ad altri luoghi. A scuola non ci si incontra “tanto per”, quanto piuttosto per crescere insieme, attraverso i canali culturali che hanno il compito di offrire, fin dall’infanzia, gli alfabeti, le chiavi e i codici per leggere e comprendere meglio se stessi, gli altri e la realtà tutta intera.
La scuola è chiamata oggi a combattere un nuovo tipo di analfabetismo: dopo quello culturale e funzionale sta emergendo un analfabetismo di tipo esistenziale che riguarda il saper vivere, in virtù del quale non si riesce ad affrontare il dolore e la precarietà, i propri limiti e i fallimenti. La scuola è chiamata ad alfabetizzare la libertà, le emozioni, i sentimenti, le percezioni, gli sguardi, i pensieri, i linguaggi. Alfabetizzare le relazioni, i bisogni, i corpi. Anche gli errori. Alfabetizzare il senso di comunità per permettere a ciascuno di scoprire la propria appartenenza a una polis che ci coinvolge e ci riguarda tutti. Molti alfabeti e molte grammatiche sono cadute in disuso. E lo si vede dal modo di comportarsi di certi giovani ma anche di certi adulti. Tocca alla scuola recuperarli e restituirli.
Il Covid ci ha fatto capire che certe orfananze sono un lusso che non possiamo più permetterci- Pertanto, possiamo restare orfani di molte cose, ma non certo di quel senso e di quel significato che il nostro stare al mondo esige.
Possiamo giocare con l’assenso, a volte anche con il consenso o con il dissenso, ma non certo con il Non-senso.
Solo la scuola è luogo di costruzione di senso. Luogo dove si impara la logica della comprensione e il metodo della problematizzazione. Come dice il filosofo e pedagogista E. Morin, non è tanto una questione di “teste piene”, quanto piuttosto di “teste ben fatte”. La scuola è il luogo dove vengono offerti criteri per imparare a usare la testa, per capire i problemi e trovare risposte, per attrezzarsi a camminare da soli, pagando anche di persona, per rendersi indipendenti nella gestione della propria libertà senza creare danni ad altri e alla comunità. Per essere capaci di affrontare le sfide della complessità, per poter arrivare in ultima istanza a fare le scelte giuste, eticamente e civilmente compatibili con le regole della convivenza democratica. Se la scuola non riparte – e se non riparte nel modo giusto – la società intera si ferma.
La pandemia non può avere il potere di minare tutto questo. L’atteggiamento non deve essere quello della resa, propria di chi getta la spugna. O peggio della delega che scarica sulla scuola compiti che vanno al di là del suo ruolo e delle sue potenzialità. Sarebbe fortemente diseducativo se abdicassimo alla scuola, o se la riducessimo a un semplice riempitivo sociale, o a pura appendice di una società in affanno.
Ma quanti credono ancora nella scuola? Quanti tra famiglie, politici, intellettuali, docenti, sono consapevoli del peso che essa può avere nell’innestare i grandi cambiamenti sociali di cui c’è bisogno, e prospettare un futuro che già fin d’ora sia capace di cambiare direzione? Credo pochi! I ragazzi forse più di noi.
Ed ecco qui la sorpresa: ci ha pensato il Covid a mettere tutti con le spalle al muro mentre eravamo rivolti altrove. Il segreto ora è riuscire a trasformare questo tragico evento storico da problema in opportunità educativa e formativa. Compito che, guarda cosa, tocca proprio a chi, come i docenti, stanno a scuola per educare, e non solo – o non soltanto – per insegnare.
Chi educa deve fare tre cose: contestualizzare, mediare e orientare. Tre attività importanti che radicano e agganciano i contenuti disciplinari al vissuto storico dei ragazzi in situazione di apprendimento attivo e partecipativo. Non si impara solo dai libri. Questi sono solo degli strumenti. I libri sono degli spaccati sulla vita, perché alla fine è la vita la vera maestra di vita. Il Covid ha rimesso la vita al centro. E’ lei la vera posta in gioco. Tutto il resto passa in secondo piano. Non solo quindi libri da leggere e studiare, ma libri da scrivere. O riscrivere. Ma per farlo ci vogliono le grammatiche e gli alfabeti di cui appunto siamo orfani.
Il Covid forse ci costringerà a fare una cosa che avremo dovuto far già da tempo, e che forse molti docenti in modo intelligente già fanno nella loro pratica didattica ed educativa: portare la vita dentro la scuola e portare la scuola negli ambienti di vita. Si tratta di una osmosi pedagogicamente significativa. Senza questa operazione di contestualizzazione, di mediazione e di orientamento, i saperi che la scuola trasmette – e rispetto ai quali le discipline non sono che semplici articolazioni – saranno solo dei costrutti disincarnati, non per nulla ancorati al vissuto storico-esistenziale degli alunni.
In fondo è quello che ci dice la normativa scolastica: far sì che tutte le competenze (disciplinari, trasversali, di base, etc…), di cui tanto si parla oggi, siano impostati in modo da essere funzionali all’unica e grande competenza che la scuola ha lo scopo di far maturare: imparare a saper stare al mondo. Affronteremo il Covid in modo attivo e responsabile: imparando ad abitare le nostre fragilità, la nostra precarietà, ma anche facendo leva sulle nostre potenzialità: il senso di comunità e le esperienze di alterità.
La scuola può servire per aiutare tutti, docenti e discenti, a elaborare atteggiamenti costruttivi di fronte alle proprie fragilità. Non come un vaso di pandora che abbiamo paura ad aprire, né come un fatto eccezionale fatto di imprevisti e di nefaste sorprese, ma come la condizione permanente della nostra vita. Non per abituarsi, ma per imparare a trasformarle in punti di forza, sì da non trovarsi impreparati quando certi mondi ci crolleranno addosso.
Trasformare il Covid da problema in opportunità è un compito a cui la scuola non può rinunciare se vuole vivere fino in fondo il proprio appuntamento con la storia. Altrimenti verrà surclassata dagli eventi, e agli occhi degli studenti apparirà vecchia e obsoleta, incapace di fare quello sempre E Morin va dicendo da tempo, e cioè “insegnare a navigare in un oceano di incertezze appoggiandosi a un arcipelago di certezze”.