Manfredonia – IN passato, nelle popolose aree d’immigrazione industriale, era semplice poter rilevare la provenienza di un condomino, del compagno di lavoro, dei quali si conosceva unicamente il nome ed il cognome, così venendo meno la necessità di udirne la flessione.
L’apporto di una folta discendenza, ormai di terza e più generazioni, rende impossibile questa immediatezza, pur conoscendone i genitori, i quali non conservano, di sovente, nulla delle loro origini. Ad esempio, un Gentile oggi a Milano è normale che parli e agisca da meneghino, naturalizzato lumbard, e che non abbia cognizione del paese degli avi.
Il fenomeno non è computabile nel Triveneto, storicamente esente dai massicci flussi migratori, nonostante esistano in loco cognomi che i dauno-sipontini considerano propri. Si pensi ad esempio a Guerra, oggi diffusissimo con le sue sue varianti, appartenente un tempo a casate di estrazione padana. Di questo, salvo che non sia abbinato a nomi tipicamente garganici o sipontini, come Michelina, Mattia (solitamente al femminile rifiutando il normale Mattea) e Sipontina, è possibile che il possessore derivi dall’onomastica veneta.
Qualcuno ha teorizzato in passato che questo fenomeno sia derivato dal frutto di un’emigrazione inversa, avvenuta quando i serenissimi solcavano l’Adriatico a caccia di averi.
Questa tesi, se attendibile, nasconderebbe allora un vero e proprio iceberg.
I cognomi tradizionalmente veneti, quali Zanni, Zanin, Zennaro, Zorzi, non vanterebbero altro che la lenizione dialettale della G in Z, pertanto corrisponderebbero ai Di Giovanni, Di Gennaro, De Giorgi o Di Giorgio, privi di particella patronimica o ridotti in ipocoristico, vedi Zanni da Gianni e Zanin da Giannini. Interessante è seguire il percorso migratorio di alcuni cognomi rintracciabili al sud d’Italia, Capitanata compresa, foneticamente alieni: si pensi a Ziilio o Del Zilio, varianti di Giglio, Gigli o Gilli; sorge allora il sospetto che, dopo un lungo periodo d’attestazione settentrionale, questi nuclei siano rimpatriati dal Settentrione, diversificandosi dal ceppo originale (dopo però non poche generazioni).
In ogni caso, al Nord esistono particolari cognomi meridionali, leniti o non, poco diffusi. Forse perché la famiglia originaria è stata interessata, in minima parte o per nulla, alla mobilità; ma forse anche perchè, non essendoci discendenti, questi ceppi erano destinati ad una prematura cancellazione anagrafica, così da segnalare, causa la loro rarità, una provenienza presto riconoscibile.
D’altro canto, esistonoanche cognomi borbonici che, anche a distanza di generazioni, ostentano la loro derivazione geografica, vedi Esposito.
Un esempio ci viene da Gianfranco Caputo, il giovane poeta universitario di Vico del Gargano, nativo di San Giovanni Rotondo, premiato nel 2001 a Montegrotto Terme PD e pubblicato in un’antologia edita da Montedit di Melegnano MI. Un cognome il suo, prontamente accreditato al Sud tra una teoria di Barison, Bordignon, Panighel… e che rende onore e dignità alla sua terra, ove ce ne fosse bisogno.
Io, il comprensivo, il solito cocciuto,
il folle bisognoso di ricovero,
io, il non promosso, l’escluso dal novero
che supplica coraggio al detenuto,
io, che urlo per un albero abbattuto
e per il diritto negato al povero \…\
Onomastica a parte, esiste, nell’ambito, il fenomeno migratorio delle consuetudini popolari; di seguito qualche esempio. Diversamente dalla convenzione italica di cuocere i cibi in pignatte a base stretta, ritroviamo il loro uso a base larga sul Gargano, nel Veneto e qua e là nella Pianura Padana.
L’usanza di trasportare pesi sul capo è stata una delle peculiarità delle regioni adriatiche; a riguardo possiamo ricordarci di quei sipontini che trasportavano in equilibrio sulla testa tavole colme di pagnotte da infornare. Lungo la fascia centrale adriatica, inoltre, talvolta riscontrabile in Daunia, le donne portavano in testa l’orcio, appoggiato su di un cuscinetto di stoffa arrotolata, lu sparrò, con elegante movenza. La si riscopre inaspettata in Istria, discriminata dal più comune utilizzo settentrionale del bilanciere.
Il manovale dauno, in ossequio alla tradizione della Puglia, trasportava carichi sulle spalle; la stessa pratica la si può oramai notare nei cantieri del Settentrione, o in Toscana dove un tempo sembrava inossidabile la condotta a mano servendosi del manico.
Infine, non è trascurabile verificare, a beneficio di uno studio antropologico, la scacchiera nazionale d’alcuni vocaboli volgari. Forse non tutti sanno che il latinismo Sabucus (Sambuco), presente al nord della Puglia – si ritrova in un’area prealpina triveneta.
Le ragioni possono essere state tante, comunque veicolate dalle vie di comunicazione: uno scambio embrionale per mezzo delle dannunziane vestigia degli antichi padri, ovvero i tratturi delle transumanze, e nutrito dalle consolari romane, le quali, di massima, ne conservavano il tracciato e che già s’era adagiato sulle strade preromane.
Orientativamente da Foggia, infatti, dall’Appia Traiana, (Roma Brindisi via Capitanata, Bari, Taranto) complanare dell’Appia principale (Roma Brindisi via Capua, Benevento, Taranto…) si snodava una bretella coast-to-coast che, dopo l’incrocio con l’Appia, confluiva, alle porte della Calabria, nella Popilia, la tirrenica proveniente da Roma Capua per Reggio Calabria
Particolare interessante è che la Popilia tirrenica, tramite questo raccordo, andava a trovare l’adriatica, che saliva verso Rimini, e qui, come Popilia adriatica, proseguiva per il nord, andando a disperdersi tra l’Annia settentrionale e la Claudia Augusta, interessando Altino, Concordia, Aquileia e l’Oltralpe per il Danubio e la Germania.
Più tardi, si sarebbero aggiunte le divulgazioni favorite dalla Via Sacra Langobardorum, specifica per Monte Sant’Angelo, dalla transeuropea francigena, che dalle Alpi andava a includere S. Leonardo e Siponto, per consolidarsi, in età migratoria del secolo scorso, con l’avvento delle tradotte ferroviarie.
A conclusione di questa pagina, permettetemi un’osservazione, meglio, un allarme: altrove, i tratturi sono stati bonificati ed elevati a patrimonio culturale. La Capitanata ha miracolosamente ereditato segmenti di quei tratturi che scendevano verso i pascoli del Tavoliere. Prima che gli incendi, dolosi o meno, ne distruggano i suggestivi filari, prima che si compia un tacito sconfinamento agricolo (già parzialmente in atto), occorre operare per un loro salvataggio e restituire ad essi l’antica dignità.
Privi di tratturi, di quelle vestigia degli antichi padri, affollati di pionieri seminatori delle diverse costumanze, oggi, certamente, non avremmo raggiunto l’entità unificatoria di popoli italici, che tanto c’inorgoglisce, e si rischia veramente di non consegnare niente di queste tangibili pagine della nostra storia, ai discendenti. Lo smarrimento di questa entità cagiona e aizza egoismi di parte politica. (Stato/Ferruccio Gemmellaro)