Per pochi registi ho nutrito (e nutro?) un’ammirazione come quella per Tim Burton, da un lato (il minore) per un’analisi fredda e critica del suo cinema, dall’altro (il maggiore) per una comunione quasi perfetta di sensibilità e gusti, incastonatura improbabile che ha visto materializzarsi su celluloide il sogno e connubio magico, nonché molto personale, tra macabro e fiabesco, nero e fantastico infantile. Continuo, tuttavia, a sostenere (non da nostalgico) che il Burton migliore si sia fermato con Sleepy Hollow. Cosa sia accaduto da quel momento in avanti non ci è dato sapere, ma tutto cominciò con Planet of the Apes, il suo risultato più basso, restando i successivi film su livelli superiori (e sicuramente buoni), ma mai più iperborei.
Il penultimo lavoro del regista, l’osannato Sweeney Todd, apparve essere una speranza di rinascita, non tanto per una recuperata magia tra forma e contenuto, quanto per una connotazione quasi intellettuale, da festival, che riusciva a compensare i punti deboli di un narrazione a tratti ripetitiva o prevedibile, di certo senza genio. L’atteso Alice in Wonderland, purtroppo, riporta le speranze a livelli più terreni, non per un vero fallimento dell’obiettivo, ma per un allineamento rispetto alle precedenti (e non del tutto convincenti) opere post Sleepy Hollow.
Le leve del film e la firma del regista sono evidenti e, per certi aspetti, anche consolatori, visti i timori di chi vi scrive. Le atmosfere, i disegni immaginifici sono Burton al 100%, forse per la prima volta (Corpse Bride a parte) dopo dieci anni. Anche la computer graphic, il cui uso inappropriato è spesso snaturante la qualità filmica – rischio ancor maggiore per il regista che ha fatto della stop-motion il suo marchio di buon vecchio artigianato -, risulta adeguata, calibrata e perfettamente funzionale, quasi sembrando un’opera di moderna falegnameria, eccezion fatta, forse, per lo Stregatto, che è sembrato più un disegno digitale che un personaggio “concreto”.
Nonostante tali pregi la storia non cattura mai davvero, lasciandosi fruire più come una carrellata di buone od ottime sequenze (seppur non memorabili) che come un’avventura fascinosa. Pare mancare, nei modi degli ultimi lavori del regista, proprio il suo personale senso e ritmo del raccontare, la capacità d’intrigare, che prescindeva da idee necessariamente nuove, traendo forza dall’abilità di mostrarci volti diversi della stessa nota realtà, proposti come fossero favole di cui sentivamo il bisogno.
Alice nel Paese delle Meraviglie non meraviglia, questo è il punto.
Non meraviglia perché non sorprende: non ci mostra qualcos’altro rispetto a ciò che già conoscevamo del buon Tim Burton e, purtroppo, neanche rispetto a quel che sapevamo delle sue “deludenti” pellicole. Non meraviglia perché non affascina: la narrazione procede per parti scomposte, senza che si senta la necessità di andare oltre con la curiosità: la storia era, è vero, in parte nota – in realtà il film racconta le vicende successive ai libri di Carroll -, ma ci si aspettava dall’autore di Nightmare Before Christmas un’impronta personale maggiormente (o diversamente) dark, che la incartasse di rinnovata e rivisitata magia.
La spia per comprendere i punti deboli non solo del film, ma delle opere recenti del regista, è nella prima parte di Alice in Wonderland – fino alla comparsa del Bianconiglio e all’inizio della favola fantastica tout court -, di una normalità senza scampo: nessun piglio, nessun ricamo, nessuna forza travolgente. Laddove manca il gioco visivo, ecco che si svela quel che sentiamo (senza, talvolta, capire) essere assente durante la sua “giostra”: il raccontastorie, l’affabulatore, il prestigiatore che ti fa credere che tutto sia vero e ti lascia sognare anche all’uscita del cinema.
Ancora un’occasione mancata, dunque, ma senza drammi.
E’ vero, tuttavia, che, al ricordo delle sue opere minori – d’oro colato, tipo Ed Wood – in tempi di platino, viene una lacrima come ripensando ad un’infanzia perduta.
Voto: 7/10
Livello spoiler: 2/10