Nel testo precedente abbiamo introdotto uno dei temi scottanti che attraversano la nostra provincia, rendendola protagonista delle cronache nere. Sì, cronache nere: nozione di cui ci appropriamo per definire da una parte la malavita che ci contraddistingue, una delinquenza organizzata con dei tratti tipici, inevitabilmente forgiati sul territorio, dall’altra per fare un brevissimo excursus sul “caporalato”, fenomeno altrettanto legato ai tratti della nostra terra, ma di cui sappiamo poco, nonostante il termine abbondi nei notiziari. Personalmente avevo sempre pensato ai caporali non come ai mediatori che legano i proprietari terrieri con una rete di braccianti che provengono da paesi poverissimi, e quando sentivo parlare di “caporalato” e “nuovo schiavismo” attribuivo automaticamente la responsabilità ai “padroni”, ai proprietari terrieri. Un paio di eventi mi hanno dato l’input per approfondire: i due incidenti che hanno provocato la morte di sedici persone in 48 ore mi hanno convinta a leggere un libro che pensavo da tempo di comprare.
Vorrei specificare che la letteratura sul tema sta crescendo sempre di più ed approfitto per segnalare che il Festival della Letteratura di Cerignola, giunto quest’anno alla IX edizione, ha avuto uno sfondo caratterizzato proprio da “agromafie, immigrazioni e caporalato”. È una spirale che si auto-alimenta, per cui balziamo tristemente agli onori della cronaca per ritrovamenti di corpi di braccianti brutalmente massacrati e poi gettati nelle campagne (“sulla nuda terra”, citando S. Francesco), o perché, in uno slancio forse provocato dalla reale empatia coi fatti, forse dettato da strategie di comunicazione tipiche della politica, il Ministro pentastellato Di Maio si è fatto vedere il 3 settembre in provincia per parlare del problema. Ma andiamo al sodo. Abbiamo citato nel testo apparso nel numero precedente del GiornalArcio il libro Mafia Caporale di Leonardo Palmisano, affresco della malavita organizzata che “dà vita a una moltitudine di agenzie di somministrazione lavoro dentro le quali lava somme inimmaginabili di denaro sporco” e che offre un ritratto eterogeneo, che attraversa tutto lo stivale e si fa attraversare da storie di braccianti, muratori, prostitute e quant’altro serva a riempire oggi tutto un settore che altrimenti gli italiani lascerebbero vacante. Perché bisogna gridarlo a chi grida “Prima gli italiani”: gli immigrati sfruttati e sottopagati in rarissimi casi occupano un posto che altrimenti sarebbe occupato da un italiano, mentre permettono a tanti settori di andare avanti. Con spese minime. Ma, tornando alla letteratura sul caporalato, vorremmo segnalare in questa sede un libro del compianto Alessandro Leogrande, intitolato Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud. L’autore è nato a Taranto nel 1977 e ha ricoperto la carica di vicedirettore della famosa rivista Lo Straniero, diretta da Goffredo Fofi. All’età di quarant’anni aveva già scritto un buon numero di libri su temi che vanno dall’immigrazione e i naufragi nel Mediterraneo, fino alla sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Si parla al passato perché Leogrande è improvvisamente deceduto quest’inverno, motivo che ha generato una nuova ondata di interesse verso la sua opera.
La Feltrinelli sta contribuendo a ravvivare quest’interesse con vari eventi. Ebbene, entrando nel vivo del nostro articolo, andiamo a vedere di cosa parla il libro di Leogrande, un’inchiesta ben documentata a metà tra la docu-fiction e la quasi incursione nell’autobiografia, poiché la propria storia personale si snoda nelle pagine che alternano la storia di oggi e quella di ieri.
La storia della famiglia materna di Alessandro Leogrande emerge nel testo quasi senza essere stata invocata: famiglia di braccianti convertiti in proprietari terrieri, cosa che ha suscitato non poche dicerie tra i compaesani (tra i motivi dell’improvviso arricchimento si è parlato addirittura della scoperta di un tesoro!), è stata firmataria, con altri proprietari terrieri, di un telegramma scritto cinque giorni prima della strage di Marzagaglia del 1920. Le pagine di Uomini e caporali affondano lo sguardo nella storia del “biennio rosso” del 1918-20, quando la Puglia si tinse di rivolte e lotte di braccianti che reclamavano più diritti e, decisi a farli valere, un giorno si presentarono a lavorare direttamente sui campi, scavalcando i caporali di allora. I padroni, che già presentivano la situazione, fecero sparare sui braccianti, provocando un bilancio di sei morti. Sarà ricordata, appunto, come “la strage di Marzagaglia”. Leogrande ci narra di come chi sparò preferì scavalcare le forze dell’ordine e far valere i propri diritti di “padroni”, facendosi giustizia da sé. Ironia della sorte, in quel Meridione da “far west”, in cui ancora imperavano la legge del taglione ed un senso dell’onore che in nome di niente e nessuno si poteva lasciar infrangere impunemente, le forze dell’ordine non intervennero, scavalcate in nome di una giustizia ordinaria e non entrarono in scena, come ci si potrebbe aspettare, per arrestare i malfattori, per arrestare chi, sparando su un contadino settantenne amato da tutti, aveva fatto sussultare la popolazione alla vista di quel cadavere su cui si erano accaniti anche post mortem.
Archiviate le lotte contadine, ed il sangue versato, di ormai un secolo fa, si va dritti al biennio 2005-2006, quando un blitz della polizia al “campo di lavoro” chiamato “Paradise” (e anche questo ci fa quasi sobbalzare in una risata ironica) sventra un clan di polacchi che riducevano sistematicamente in schiavitù i concittadini sventurati che avevano riposto al seducente annuncio di lavoro. Ce ne racconta, grazie agli incontri con Centrone, console onorario della Polonia a Gioia del Colle (sì, c’è un consolato polacco lì, ubicazione funzionale alla forte presenza di lavoratori), grazie allo spulciare certosino negli archivi giudiziari e ai colloqui con alcuni esponenti delle forze dell’ordine, gli sviluppi, gli arresti, il processo e le condanne di quella che era comunque solo la punta dell’iceberg: anche qui ci indigniamo, poiché le condanne furono pari sia per chi comandava e si era arricchito (ed aveva, quindi, potuto pagarsi ottimi avvocati), che per chi aveva avuto ruoli minori ed aveva collaborato a ricreare il quadro dello sfruttamento. Ci racconta i drammi famigliari di chi è venuto fino a “quaggiù” per chiedere giustizia per la morte del figlio, ritrovato a trent’anni morto su una strada col volto gonfio e sfigurato. E di come gli inquirenti abbiano archiviato il tutto come “morte naturale”.
Ci racconta dei 15000 desaparecidos polacchi, le cui foto campeggiano su webs e giornali e di cui, per tanti tra di loro, le ultime tracce si sono perse proprio in Capitanata. Gente che si era avviata con la speranza di capovolgere il proprio destino e che non è voluta tornare al paese con “la scusa” dello sfruttamento: avrebbe significato doppio fallimento. Sarebbe sfociato nel non poter restituire neanche i soldi chiesti in prestito per partire.
Poco a poco si va delineando il ritratto di come sia organizzato il caporalato, di quali siano gli investimenti paralleli con cui se ne fanno lievitare i guadagni. Di come i suoi protagonisti siano legati anche al mercato della prostituzione e del traffico di armi e droga. Tutto ci viene raccontato con cognizione di causa, si capisce che l’autore non ha lasciato niente al caso ed ha cercato di guardare il fenomeno da prospettive differenti: una è quella del ragazzo che, dopo la rivolta di Marzagaglia, cercò di nascondersi dagli spari rifugiandosi in un grosso forno spento, dove fu freddato con dei colpi che gli fecero esplodere il viso ancora acerbo. Ma anche affondando nelle trame famigliari che inaspettatamente si sono presentate sullo scenario di questa vicenda. Si capisce che Leogrande vuole stare dalla parte degli sconfitti, lo dice lui stesso, ma non si schiera a priori con questa o con quella parte.
E chiudiamo qui il cerchio. Avevamo annunciato che il nostro proposito era seminare la riflessione. Generare dubbi. E mi pongo quindi una domanda, personale, nata dalle letture che mi hanno portata a scrivere queste paginette e di cui spetta al lettore determinare o meno la legittimità. Emerge un ritratto del caporalato in cui gli schiavisti, gli sfruttatori, quelli che picchiano i lavoratori come fossero bestie, sono i vari Mariusz o Mahammed, che procurano braccia da lavoro ai gradi proprietari, e che si arricchiscono sfruttando la miseria dei propri connazionali, approfittando della loro vulnerabilità sociale. Ma davvero coloro che possiedono quelle sconfinate distese di pomodoro, distese di terra che si svuotano di “oro rosso” in pochi giorni, sono totalmente ignari di quanto succede nei propri campi? Non si chiedono dove dormono, come si lavano senza acqua corrente, come si faccia in pochi giorni a svuotare un campo? Davvero non sono a conoscenza degli spiccioli esigui che giungono nelle tasche di chi riempie i loro cassoni di quintali di pomodori (e le loro casse di milioni di euro)?
A cura di Maria Giovanna Falcone,
Monte Sant’Angeo, 08 agosto 2019