Bari – I pugliesi versano un miliardo e mezzo di euro
per l’imposta unica comunale (IUC), articolata in due componenti: l’IMU, di natura patrimoniale e dovuta dal possessore di immobili ad esclusione dell’abitazione principale; l’altra componente relativa ai servizi, che a sua volta si suddivide nel Tributo per i servizi indivisibili (TASI) e nella Tassa sui rifiuti (TARI) destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Più precisamente, versano 709.632.180 euro per l’IMU,
207.339.598 per la TASI e 559.762.536 per la TARI. A questo gettito si aggiungono altri 415 milioni di euro per l’addizionale comunale Irpef e per le altre imposte residuali, come l’imposta di scopo, l’imposta di soggiorno nelle località turistiche, l’imposta comunale sulla pubblicità, la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche, i diritti sulle pubbliche affissioni, i tributi speciali ed altre entrate proprie. E’ quanto emerge da un’indagine del Centro Studi di Confartigianato Imprese Puglia su dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
L’importo pro-capite è di 175,18 euro per l’IMU, 51,18 euro per la
TASI e 138,19 euro per la TARI. «Le elaborazioni del nostro Centro studi regionale – commenta Francesco Sgherza, presidente di Confartigianato Imprese Puglia – evidenziano quanto sia elevata la pressione fiscale dovuta alle tasse locali su immobili, rifiuti e servizi pubblici. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una continua ed incessante riparametrazione dei tributi: la fantasia dei Governi che si sono succeduti alla guida del Paese ha dato vita ad un groviglio di nuove tasse di cui la IUC è solo l’ultima arrivata. Complice un federalismo fiscale solo parzialmente applicato e mai
compiutamente realizzato, l’obiettivo è uno solo: recuperare risorse per le
casse delle amministrazioni locali sempre più condizionate dalla
riduzione dei trasferimenti statali e dai vincoli del patto di stabilità. A
farne le spese sono i cittadini e soprattutto le aziende, alle prese con un
rebus la cui unica certezza è il fatto di dover pagare, alle volte, importi
anche raddoppiati rispetto a quelli del 2011.
È così che si è giunti al paradosso di tassare finanche gli immobili strumentali, che garantiscono produzione e occupazione. La tanto attesa riforma fiscale – conclude il presidente – dovrà riportare in equilibrio un sistema ormai incomprensibile e fortemente sbilanciato. Un approccio organico al problema della tassazione locale in tutte le sue componenti è essenziale per centrare l’obiettivo di una riduzione effettiva e globale della pressione fiscale e dare respiro al sistema produttivo».
Ecco le imposte che gravano sugli immobili. Sono ben cinque le categorie di imposte che gravano sugli immobili:
– imposte di natura «reddituale» il cui presupposto è il reddito prodotto dalla proprietà o dal possesso del bene (IRPEF, IRES);
– imposte di natura «patrimoniale» il cui presupposto è la proprietà o il possesso del bene (IMU);
– imposte sui servizi pubblici resi ai proprietari di immobili (TASI);
imposte sul trasferimento degli immobili a titolo oneroso (IVA, registro, ipotecaria, catastale);
– imposte sul trasferimento degli immobili a titolo gratuito (successioni e donazioni);
– imposte sulle locazioni (cedolare secca, registro e bollo sui contratti di locazione).
Evoluzione normativa della tassazione immobiliare (2012-2014)
L’IMU, introdotta con il decreto legge 201 del 6 dicembre 2011, colpiva, a partire dal 2012, tutti gli immobili, compresa l’abitazione principale. La base imponibile era costituita dal valore catastale determinato applicando alla rendita catastale (rivalutata del 5 per cento) moltiplicatori più alti rispetto a quelli usati in precedenza per l’ICI. L’aliquota di base era fissata allo 0,76 per cento, ma i Comuni potevano modificare l’aliquota, in aumento o in diminuzione, sino a 0,3 punti percentuali (la riduzione poteva arrivare allo 0,4 per cento per gli immobili locati).
Per l’abitazione principale e le relative pertinenze, l’aliquota era fissata allo 0,4 per cento e poteva essere aumentata o diminuita dai Comuni fino a 0,2 punti percentuali. Era riconosciuta, inoltre, una detrazione fissa di 200 euro e, fino a tutto il 2013, un’ulteriore detrazione legata al numero dei figli conviventi. Nel 2012 è stato attribuito allo Stato metà del gettito ottenuto dagli immobili diversi dall’abitazione principale valutato ad aliquota base.
Dal 2013, l’intero gettito, ad eccezione di quello derivante dai fabbricati a uso produttivo (immobili di categoria D), è di competenza dei Comuni. È inoltre previsto che i Comuni versino al bilancio dello Stato una quota del gettito dell’IMU di loro spettanza, per un importo complessivo di 4,7 miliardi nel 2013 e 4,1 nel 2014. Tali risorse sono destinate al finanziamento del Fondo di Solidarietà Comunale (che dal 2013 ha sostituito il Fondo Sperimentale di Riequilibrio). Per l’anno 2013, il decreto legge 102 del 31 agosto 2013 ha soppresso il versamento della prima rata dell’IMU, relativamente ai seguenti immobili:
– abitazione principale e relative pertinenze, ad eccezione dei fabbricati classificati nelle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile), A/8 (ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminenti pregi artistici o storici);
– unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale (e relative pertinenze) dei soci assegnatari;
– alloggi regolarmente assegnati dagli Istituti autonomi per le case popolari (Iacp) o dagli enti di edilizia residenziale pubblica, comunque denominati, aventi le stesse finalità degli Iacp;
– terreni agricoli e fabbricati rurali.
Il decreto legge 133 del 30 novembre 2013 ha abolito anche il versamento della seconda rata IMU per le categorie sopraelencate, ad eccezione dei terreni agricoli, posseduti da chi non svolge attività agricola. Dal 2014, l’IMU è stata integrata nella IUC (Imposta Unica Comunale). Sono esenti dall’IMU le abitazioni principali delle categorie catastali «abitazioni di tipo civile», «economico», «popolare» e «villini» (categorie da A/2 ad A/7). Alle abitazioni principali soggette all’IMU (abitazioni signorili o di rilevante pregio) è riconosciuta una detrazione di 200 euro. Inoltre, non è più riconosciuta ai fini IMU la detrazione di 50 euro per i figli di età inferiore a 26 anni, come previsto dal decreto legge 201 del 6 dicembre 2011. Alle abitazioni principali soggette all’IMU e alle relative pertinenze (abitazioni di lusso) è applicata l’aliquota ridotta dello 0,4 per cento. I Comuni possono modificare, in aumento o in diminuzione, la suddetta aliquota sino a 0,2 punti percentuali. Rimane invariata l’IMU sulle case diverse dall’abitazione principale che continuano ad avere un’aliquota ordinaria dello 0,76 per cento che potrà subire variazioni in aumento o in diminuzione non superiori a 0,3 punti, a discrezione dei singoli Comuni.
Redazione Stato
In Italia, com’è noto, c’è un’elevata pressione fiscale che assilla e opprime cittadini e imprese. Molti pensano e sono convinti che le imposte elevate, che noi “tartassati” paghiamo, dipendono dal nostro imponente debito pubblico, dall’elevata evasione fiscale, dalla corruzione dilagante, nonché dagli sprechi che si annidano nella spesa pubblica (fenomeni tutti gravissimi). Quando le tasse salgono (si dice), i consumi e gli investimenti diminuiscono, il PIL crolla, però, almeno, il gettito aumenta e si mette in equilibrio il bilancio. In altri termini, il ragionamento è il seguente: “poiché il presupposto della crescita è avere i conti in ordine, le imposte in questa fase storica devono aumentare e la spesa pubblica deve diminuire”. E’ questa, in estrema sintesi, la filosofia della cosiddetta “austerità espansiva”, la teoria economica neoliberista oggi dominante in Europa (e non solo).
C’è però una teoria economica (mi limito a trattare per ragioni di spazio solo il capitolo delle entrate fiscali), volutamente trascurata, che dimostra l’inganno di questo ragionamento Secondo questa teoria, ad un aumento della pressione tributaria non sempre corrisponde un aumento del gettito, ovvero delle entrate. Anzi, più spesso accade il contrario: imposte alte, entrate basse. Tale teoria è stata rappresentata in un diagramma: la Curva di Arthur Laffer.
Questo economista dimostrò che, quando la tassazione diventa eccessiva, il gettito tributario diminuisce e genera effetti molto negativi nel comportamento dei contribuenti come: l’evasione e l’elusione fiscale, la delocalizzazione della produzione e degli investimenti privati, crollo dei consumi, nonché il trasferimento di redditi e capitali all’estero.
Per rilanciare i consumi, gli investimenti, l’occupazione e lo sviluppo dell’economia è assolutamente necessario, quindi, diminuire le tasse sui redditi medio-bassi. Ma per realizzare questa politica economica c’è una sola possibilità: riformare i Trattati dell’Unione monetaria (sui quali non mi soffermo sempre per ragioni di spazio) e abbandonare la demenziale e irresponsabile politica di austerità.
Raffaele Vairo