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Duemila anni d’esecuzioni capitali nella nostra penisola, dall’Antica Roma alla Prima Repubblica Italiana.
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Nell’Antica Roma repubblicana si condannano a morte gli schiavi ed i traditori; in quella imperiale, anche gli uomini liberi accusati di lesa maestà. La condanna prevede la decapitazione, il rogo, l’essere divorato da belve affamate; quest’ultima pratica è stata in verità un breve inciso della storia romana e al tempo dei protocristiani, considerati ebrei sobillatori dell’ordine costituito. I parricidi sono invece chiusi in un sacco in compagnia di un cane famelico, di una vipera o d’altro. C’è da aggiungere che l’imperatore aveva il dovere di ratificare le esecuzioni e non poteva sottrarsene anche al cospetto di un congiunto colpevole, genitore, moglie, figlio che fossero; diversamente sarebbe stato accusato di grave parzialità.
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Nel Medioevo, la condanna a morte rappresenta una vendetta del signore feudatario e la scelta pratica viene lasciata al boia*, il quale escogita delle scervellanti novità che vanno dal bollimento in olio, al trascinamento o allo smembramento tramite cavalli e allo scuoiamento (o scoiamento come vuol dirsi). La condanna peggiore, logicamente, è prevista per l’assassinio del proprio signore “benefattore”.
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Ai tempi delle Signorie si alzano le forche e quella più decisa è la milanese. I Visconti e gli Sforza la utilizzano anche per i reati non contemplati dal codice, ma considerati tali da un qualsiasi giudice (di parte). La Santa Inquisizione, il cui eccidio pare abbia statisticamente superato quello dei lager nazisti, contempla una vasta gamma di strumenti “cattolici”: decapitazione, impiccagione, rogo (Giordano Bruno il 17 febbraio 1600), soffocamento nel fango; gli ecclesiastici rei, poi, allo scopo di non far sgorgare il loro sangue “viola”, vengono lasciati morire in gabbie penzolanti dai campanili. L’intelligenza cristiana del Santo Padre polacco gli ha ispirato la richiesta di perdono, in nome di tutto il cattolicesimo, per i fattacci delle Crociate, dell’Inquisizione, delle Missioni ma ancora una volta è l’uomo in sé che deve chiedere storicamente perdono agli altri uomini, al di fuori cioè della sua veste religiosa, politica, militare.
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L’Illuminismo è il viatico al ripensamento cristiano e civile e le condanne calano sensibilmente di numero, mantenute generalmente per traditori e spie. Il primo stato ad abolire le condanne a morte è il Granducato di Toscana nel 1786, poco più di un ventennio dalla pubblicazione di Beccaria “Dei delitti e delle pene“.
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L’Italia dei Savoia è indecisa: in ottanta anni di monarchia, la condanna a morte viene sospesa e ripristinata per almeno cinque volte, finché non è del tutto accantonata nel 1899 dal codice Zanardelli. L’Italia fascista la reintegra quale difesa di stato, deterrente alle opposizioni, ma viene estesa anche ai reati comuni, dimostrando l’eclatante debolezza (e paura) di regime. L’Italia Repubblicana la elimina per via costituzionale nel 1947, anche se permane teoricamente sino al 1993 per reati previsti dal codice delle leggi marziali.
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All’alba del terzo millennio, la pena di morte esiste ancora diffusissima nel mondo; è stata cancellata, esclusa l’Ex URSS, dalle legislazioni in Europa e negli stati del Centro-Sud America, in Oceania , nella punta estrema del continente africano.
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Il Cile l’ha soppressa nella Pasqua del 2001 e l’Ucraina a settembre. La Turchia, gennaio 2004, quale referenza per entrare nell’UE, ha firmato il protocollo della Convenzione europea dei diritti sull’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza, compresi tempi di guerra o di imminente pericolo di guerra. Gli ultimi governi abolizionisti sono il Messico e la Liberia, portando ad ottantasei gli stati al mondo che nel 2006 non praticano la pena di morte
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Tutto il resto, salvi gli aggiornamenti, o la mantiene o la utilizza in casi eccezionali o non intende sopprimerla pur evitandola. Lo stato di Singapore, addirittura, nel 2004, detiene il primato delle esecuzioni in proporzione al numero degli abitanti. Dal 1991 al 2003, infatti, se ne contano 408. Il Libano, dopo cinque anni di sospensione, nel 2004 riprende le pena di morte con tre esecuzioni. Nel 2005, in Cina sono state eseguite ben 5000 condanne capitali.
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Tra i personaggi che al mondo combattono o hanno combattuto per l’abolizione assoluta della pena di morte, ritroviamo i nomi di Sister Helen Prejean (religiosa), Pierre Sanè (Amnesty International), Anatolij Pristavkin (scrittore), Francesco Cossiga e Roberto Bobbio (senatori a vita, quest’ultimo scomparso nel gennaio del 2004), Patrizia Tola (rappresentante italiana nelle sedi internazionali ove se ne discuta).
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La storica recrudescenza del terrorismo, a scapito degli Usa e dei suoi alleati – la paura internazionale diffusasi immediatamente dopo il gravissimo attentato al Pentagono e alle torri gemelle di Manhattan del settembre 01, con migliaia di morti – ha già verosimilmente piantato dei paletti d’attrito alle buone intenzioni, anche se per i kamikaze la morte eroica è sempre un dono divino, sia prima, durante o dopo la missione.
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C’è da sottilizzare, infine, per quanto riguarda l’Italia, che la legge approvata sulla liceità di difendersi a colpi d’arma da fuoco, per proteggere vita e beni, non sia altro che una ben congegnata pena capitale con delega ai cittadini, pertanto, lo stato viene così ad aggirare la declamata etica ufficiale di negazione delle condanne a morte.
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Una flebile speranza, tuttavia, ci arriva da una statistica stilata nel 2006 relativa ai 54 paesi, dopo i 60 del 2004, che ancora mantengono le condanne a morte: 5494 esecuzioni nel 2005 contro i 5530 del 2004 ed è ancora la Cina al primo posto, in pratica avvengono nella stragrande maggioranza tutte lì; segue l’USA con 60 e la Bielorussia con 2.
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* significato Boia
Bòia c’è giunto dal provenzale BOIA ceppi, derivato dal lat BOIAE “strumenti di tortura e di supplizio” o “gogna”, attinto al greco BOELAI, che indicava le corregge bovine. Dal latino volgare CUNGULA cinghia del giogo, invece, è pervenuto Gùnghia, che, incroiciato con Vergogna, ha prodotto Gògna. Dal longobardo BREDEL asse-tavola, invece, ci è pervenuta la traduzione in Berlìna quale suo diminutvo, un termine longobardo la cui radice è ancora l’origine dell’italiano Predèlla sia “basamento” sia “briglia”.
(tratto dal Dizionario Etimologico Comparativo)