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Morte dei due fratellini. La cultura del “proprio” e crisi del Noi

AUTORE:
Michele Illiceto
PUBBLICATO IL:
13 Luglio 2023
Cultura // Manfredonia //

MANFREDONIA (FOGGIA) – (Di Michele Illiceto) Abbiamo appena celebrato le esequie dei due fratellini. Neanche la morte di queste due vite innocenti ha placato le inutili costernazioni e le banali e superficiali affermazioni di quanti, di fronte al comunicato del vescovo Padre Franco, hanno detto, in modo quasi sarcastico, “Caro padre vescovo portateli tutti a casa tua”.  Malattia della delega o semplice senso di impotenza, o peggio ancora sintomo di una cultura che si nutre di una generale e diffusa quanto comoda indifferenza?

 

È come si si fosse detto: “Non hanno il diritto di stare qua, se ne tornino a casa loro. Oppure, caro padre vescovo, visto che prendi le difese di costoro, dai, esponiti tu per primo. Portali tutti a casa tua”.

 

Magari ci fosse tanto spazio nella casa del vescovo! Eppure, è proprio nella Casa della carità, voluta dal compianto Mons. Castoro e ora condotta dalla Caritas diocesana, di cui il vescovo è il primo responsabile, che nel passato ha ospitato alcune famiglie di immigrati e ora dei rifugiati afgani. Chissà perché a Manfredonia le uniche due mense che, da più di trent’anni, danno da mangiare ai meno abbienti sono, guarda caso, la mensa parrocchiale della parrocchia della Croce e quella ubicata nella chiesetta di S. Andrea, fondata tanti anni fa dal compianto don Carlo Sansone.

 

Eh già, ognuno ha la “propria” casa, la propria terra, i propri privilegi, il proprio lavoro, i propri conti in banca, i propri affetti. È giusto, per carità. Ma non basta. La parola “proprio è limitativa ed escludente. È dialettica direbbero i filosofi.

 

Ora, è questa parola che mi fa paura: la parola “proprio”. Una parola molto vicina a quell’altra, altrettanto pericolosa, foriera di tanti guai, come hanno denunciato nel passato pensatori insigni come Platone, Thomas Moore, J. J Rousseau, fino a K. Marx. Tale parola è “proprietà”, che a sua volta è molto legata al termine “appropriazione”. E dove c’è appropriazione c’è sempre una espropriazione.

 

Ma il termine “proprio” a sua volta è sinonimo di “mio”. E ciò che è mio non di altri. Sbagliato condividerlo. Mio si contrappone a nostro. “Mio” fa rima con “io”. Ed eccoci arrivati. È inutile nascondercelo: siamo nella società dove a dominare è l’io. E si vedono i risultati: tanti io isolati e opulenti nella loro ricchezza che anziché renderci libri ci rende schiavi e incaci di guardare ai bisogni di tutti.

 

Questo fenomeno i filosofi la chiamano “atomismo sociale”, tant’è che il filosofo Zoja ha parlato di “morte del prossimo”.

 

Eppure basterebbe un poco di psicologia spicciola per capire che prima di diventare degli “io”, tutti siamo stati in primo luogo dei “tu”. Ciascuno è stato il “tu” di un altro. Ecco allora che si nasconde dietro le parole di molti pronunciate in questi giorni: si nasconde il fatto che manca l’altro, spesso considerato o come nemico, o come fastidio, o come minaccia, o come rivale, ma mai, come insegna il vangelo e certa etica liaca e anche illuministica, come fratello. Sì, fratello.

 

Infatti, come non ricordare che, accanto alle due parole (LibertéÉgalité) della rivoluzione più laica e anticlericale della storia –  quella francese del 1789 –  vi era anche la parola Fraternité? Charles Péguy pensava che il motto repubblicano dovesse essere riscritto in questo ordine: fraternità, libertà, uguaglianza.

 

Come ci ha ricordato Papa Francesco nella sua recente enciclica Fratelli tutti, la fraternità non è spontanea. E ricorda Caino e Abele! La fraternità è sempre avanti a noi. Dobbiamo costruirla ogni giorno.

 

Ma da sola la libertà non basta. Uccide l’uguaglianza. A tal proposito diceva Edgar Morin:  la libertà può essere istituita. L’uguaglianza può essere imposta. La fraternità, invece, non si stabilisce con una legge, né si impone dallo Stato! Viene da una esperienza personale di solidarietà e di responsabilità..

 

Certo, è difficile accorgersi della fraternità altrui. Di solito a qualcuno capita di farlo solo se egli stesso si trova nel bisogno: allora soltanto ci rendiamo conto di quanto l’aiuto degli altri per noi è questione di vita e di morte.

 

Allora dovremmo mettere in atto una vera rivoluzione culturale e chiederci che cosa è mai un io senza l’altro? Niente. Per il solo fatto che siamo fatti gli uni per gli altri. Già il filosofo Aristotele, prima del cristianesimo diceva che l’io non basta a se stesso. Ci vuole la polis.

 

Ed ecco, allora, che cosa, forse, ci può insegnare la morte tragica di questi due fratellini: avere più senso comunitario e meno individualismo proprietario. Se così facessimo non ci sarebbe bisogno di portare queste persone a casa di qualcuno soltanto, ma creeremmo per loro spazi di accoglienza tali da farli sentire parte di noi. Non “altri” opposti al nostro io, ma altri dentro il nostro “Noi”. Non “altri” fuori” ai margini, ma altri che come noi. E il Noi è lo spazio dove ciascuno mette qualcosa di suo.

 

Perché nulla è veramente nostro. Il “proprio” e il “mio” è relativo e transitorio, direbbe il filosofo Spinoza, ma anche il vangelo. Assolutizzarlo è da scemi e da idioti. Oltre che da stolti e da insipienti. O forse, ancora peggio, da ignoranti.

 

E già sento i vostri commenti che scriverete in riposta a questo articolo su questo sito. Li sento e già li leggo: “Illiceto, portateli a casa tua”. Ah, come vorrei! Peccato che casa mia è solo di 70 mq e pago, come tanti, ancora il mutuo. Ma forse, se ci mettiamo insieme diventeremo noi la casa dove nessuno sarà mai lasciato fuori.

Un vecchio adagio del Talmud di Babilonia ripreso dal filosofo E. Levinas dice: “Se non rispondo io di me, chi risponderà per me? Ma se rispondo solo di me, sono ancora io?”

 

Ecco, allora, la sfida: rispondere degli altri è rispondere di sé. Chi pensa, invece, di rispondere solo del proprio io, si illude, perché chi risponde solo di sé non risponde neanche a sé, in quanto non sa che nel suo se stesso, c’è già l’altro.

 

A cura di Michele Illiceto

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