“Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. (Gabriel Garcia Marquez)
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∞ Quel Presidente che continua a vegliare dall’alto l’Italia ∞
di Piero Ferrante
In frangenti come questo viene voglia di cantare Giorgio Gaber. E cantiamo. “Io non mi sento Italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Poi ci pensiamo su. Lo siamo, “purtroppo”, nelle polemiche di bassa lega riscatti si-riscatti no, negli inciuci di palazzo, nelle case a insaputa dei ministri, nelle ammazzatine teologiche, nei mondi di sopramezzosotto, nella torta spartita con la mafia, nel razzismo sopito, nelle trattative e nelle bombe alle stazioni. Lo siamo, “purtroppo”, quando ci guardiamo le rughe allo specchio e le riconosciamo in Mussolini, Gelli, Andreotti, Craxi, Mambro, Fioravanti, Placanica e compagnia cantante. Lo siamo, “per fortuna”, nell’anelito di libertà da guappi, nella vocazione ribelle, nello spirito bastardo e nella carne mista, un po’ normanna, un po’ francesce e mezzo araba. Siamo “per fortuna” Masaniello nel sangue, Garibaldi nel cuore e Berlinguer nella testa. Insomma, altro che Charlie: siamo tutti un po’ nipoti di Sandro Pertini.
Quali sono i frangenti come questo? Sono quelli stretti a tenaglia tra la scorsa di un giornale, uno a caso (tutti sparano ad alzo zero sui nomi del prossimo Presidente della Repubblica con lo stesso, identico, sputato effetto di un lacrimogeno) e la fine lettura del graphic novel “Pertini fra le nuvole”, firmato dal duo Elettra Stamboulis-Gianluca Costantini (che già firmò Arriverderci Berlinguer) ed edito da BeccoGiallo. E non capisci se, a quel punto, in quel preciso punto, ti viene da piangere perché il paragone tra la nuova e la vecchia classe dirigente è impietoso e tu avresti dovuto vivere trent’anni prima (e anche sessanta) o se, al contrario, di Pertini ne è esistito, ne esiste e ne esisterà uno solo perché sono questi quà (direbbe il Crozza/Bersani) che sono in ritardo di secoli e andrebbero rispediti al Medioevo.
Così ti arrovelli, spremi le meningi, speri, preghi, fai macumbe e riti voodoo, ti appelli alla magia (a tutte le magie, nere, bianche, grige e rosse) per svegliarti in un Paese se non diverso appena un po’ più giusto, più riconoscente. Un Paese che non metta in dubbio il fatto che no, affatto! partigiani e fascisti non sono stati la stessa cosa e mai lo saranno; un Paese che non confonda la libertà con la rete, la dignità della zappa con whatsapp e la ragione di un sogno con il sonno della ragione; un Paese in cui non si faccia confusione tra i segni del potere e il potere dei segni. In questo, i lavori di Elettra e Gianluca sono preziosi. Ci riportano in pace con il mondo, ci riallineano alla realtà senza toglierci la speranza. Dobbiamo essergli tutti grati perché ci danno una scossa. Ci ricordano che leggere di Pertini, della sua vita faticosa, della sua malattia, della sua ostinazione, del suo attaccamento ai valori, e poi farlo in un mondo che di valoriale ha sempre di meno abbarbicato com’è alla frugalità cocciuta e sorda di un oggi da divorare tutto e subito, non può essere un’eccezione, ma deve essere la normalità.
In un’Italia isterica, disarcionata da scandali e rivelazioni, ricordare la figura di Pertini – soprattutto farlo in questo modo aperto e senza fronzoli, affiancato da Andrea Pazienza, che gli fa da contraltare/spalla per tutto il fumetto – è un atto di fiducia verso la Storia, una pioggia di speranza e un’esplicita dichiarazione che sì, un mondo migliore esiste. Basta soltanto volerlo trovare e rivivere. Per sentirsi Italiani. Per fortuna.
Elettra Stamboulis-Gianluca Costantini, “Pertini tra le nuvole”, Becco Giallo 2014
Giudizio: 4 / 5 – mi scusi presidente
Da leggere ascoltando: Giorgio Gaber, “Io non mi sento Italiano”
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∞ Intervista a Francesca Bonafini ∞
di Marilù Oliva
ATTIVITA’: Scrittore
SEGNI PARTICOLARI: Pigra, golosa, lussuriosa.
Le tue origini e la tua città
Sono nata a Verona e sono cresciuta in un paese che si chiama San Giovanni Lupatoto, distante pochi chilometri dalla città. Lupatoto è un nome assai suggestivo, secondo me, e infatti ci sono molte leggende alla base di questo toponimo. A me piace quella che ha a che fare con i lupi: pare che un tempo la zona fosse boschiva e ci fossero lupi dappertutto, lupi ad totum. Ho un forte legame linguistico con la mia terra: sono cresciuta parlando dialetto, lo parlo abitualmente e lo amo moltissimo. Dalle mie parti il dialetto continua a essere una lingua viva, non si è affatto perduto con le nuove generazioni. I dialetti, tutti i dialetti, sono lingue straordinariamente inventive, immaginifiche, vivaci, e a me piace molto assorbire e far uso di forme dialettofone altrui: avendo la fortuna di avere amici in tutta Italia, imparo meravigliose parole napoletane, ad esempio, o siciliane, o abruzzesi, cosicché il mio parlato quotidiano si ibrida e si arricchisce.
Cosa rispondevi, da piccola, quando ti chiedevano che lavoro volevi fare?
La cantante, o la batterista. Ho iniziato a suonare la batteria a quattordici anni, e ho continuato fino a venticinque circa. Ho suonato (e successivamente cantato e scritto testi di canzoni) in un gruppo per parecchi anni: è stata una bella esperienza, ma non era quella la mia strada, anche se ancora adesso non so bene quale sia la mia strada. Più che altro si può dire che son solita perdermi nei boschi laddove non c’è un sentiero ben preciso, ma tanta sterpaglia, ortiche e rovi, epperò c’è anche quella bella luce che filtra tra gli alberi, e il profumo delle foglie e della resina e del muschio, che son tutte cose che fanno bene al respiro. O anche male, talvolta.
E adesso cosa dici?
Mi piacerebbe, mi sarebbe piaciuto, lavorare nel sociale; nell’ambito delle tossicodipendenze, per esempio. Credo di averne l’attitudine, anche se poi le circostanze mi hanno portata a fare altro. A volte però dico, e ci penso seriamente, che vorrei darmi alla vita eremitica: ritirarmi in solitudine, circondata da gatti e da altri animali, come fece Adriana Zarri. Ma il mio futuro in realtà lo prefiguro così: prima o poi avrò un crollo psichiatrico e finirò i miei giorni girovagando per le strade, straparlando da sola e dormendo sotto un portico.
È uscito quest’anno con Avagliano il tuo romanzo “Casa di carne”: un sottotitolo al libro.
Il sottotitolo potrebbe essere una frase che Angela, la protagonista nonché voce narrante, dice al suo amico Alessio: “Basterebbe passare più tempo a darsi i baci. Il resto ritornerebbe a prendere la dimensione giusta, quella del superfluo”.
La voce narrante è di Angela: Angela e i suoi viaggi, le sue introspezioni, i suoi amori, le sue ricerche, le sue perdite e le sue acquisizioni. Subito salta agli occhi la peculiarità del tuo stile. Uno stile molto ricco, è come se traboccasse delle tante letture che hai fatto, ma con misura, secondo un ritmo musicale non prevedibile e con poesia. Ti chiedo di parlarci, dal punto di vista formale, della stesura del romanzo e di eventuali successive lavorazioni.
A questo libro ci ho pensato per una decina d’anni, ne avevo scritto già qualche pagina addirittura prima di terminare Mangiacuore, il mio esordio romanzesco, che uscì nel 2008 edito da Fernandel. Ma in quel tempo, però, di Casa di carne avevo scritto solo poche cartelle, che sono state quasi del tutto rimaneggiate. Negli anni successivi all’uscita di Mangiacuore ho poi apparentemente abbandonato il progetto, che ancora non aveva un titolo – lo chiamavo semplicemente il romanzo di frontiera – e ho lavorato ad altro. Dico apparentemente, perché in realtà non ho mai smesso di pensarci e di prendere appunti. Il concetto di casa di carne, inteso come l’abbraccio in cui abitare, mi è venuto in mente nel 2007, mentre ero di passaggio a Roma, che è una città in cui ho molto amato. Da quell’intuizione è poi arrivato il titolo.
A parte la lunghissima gestazione, la stesura vera e propria è durata circa otto-nove mesi, ma con un lavoro di lima che si è protratto ancora a lungo.
Dal punto di vista tecnico, ciò che maggiormente mi sta a cuore quando scrivo è il ritmo. Le parole, prima ancora di rimandare a un senso – o, per meglio dire, a una molteplicità di significati e stratificazione di significati – sono suono, sono musica. Tessere i fili di un testo (testo, etimologicamente, vuol dire tessuto) è come scrivere uno spartito musicale. Quando scrivo cerco la musica, e cerco di approssimarmi il più possibile alla precisione, il che richiede un lavoro complesso e spesso esasperante. Ma nel risultato finale vorrei che tutta questa fatica non si percepisse, vorrei che ci fosse una sorta di sprezzatura: la mia speranza è che il lettore abbia solo una percezione di fluidità, di bellezza, di ritmo, senza accorgersi del lavoro mastodontico che ci sta dietro. Nel mio caso, devo dire che tutto ciò è particolarmente faticoso, perché non ho facilità né di parola né di ingegno, il che spiega anche la ragione della mia lentezza: mi sento in una sorta di ritardo perenne, e infatti dico sempre che sono in ritardo di dieci anni sulla mia vita.
Tornando alla questione del ritmo, Fabrizio Frasnedi, docente di linguistica all’Università di Bologna, è solito dire che si scrive con l’orecchio, e io credo che la questione dell’orecchio, dell’avere orecchio, sia un’attitudine innata, che poi probabilmente si coltiva e si affina ruminando i testi che riescono a combinare bene le parole, a fare musica con il suono delle parole. Prendi ad esempio questi versi di Dante: “E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata, / così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva.”
Ecco, questo è quel che significa fare musica con le parole. Senza contare che quel primo endecasillabo “E come quei che con lena affannata” ha già nel suono il senso dell’affanno, non trovi? Ha già in sé quella sorta di rallentamento ansimante che sopravviene al seguito di uno scampato pericolo.
La faccenda più difficile da realizzare, quando si scrive, è proprio questa: fare in modo che il significante sia, già di per sé, significato. L’aspetto formale di un testo mi deve parlare, non mi interessa che siano solo i significati a farlo. E lo dico prima di tutto da lettrice, perché quando leggo un libro cerco soprattutto questo, cerco la lingua, cerco la scelta formale che sappia incantarmi fonicamente, voglio una combinazione di parole fonicamente incantevole, e che combaci con il significato, che sia parte attiva del significato.
Si sa che tutto questo lo san fare davvero solo i grandi, come Dante, per esempio. Noi qua si tenta la via di un piccolo lavoro di artigianato, un approssimarsi da lontano (anni luce di distanza, per la verità) a questa perfetta simmetria di forma e di senso, che sempre ci sfugge.
Continua a leggere l’intervista su Libroguerriero, il blog di Marilù Oliva
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