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‘L’ora del lupo’, ‘Il rito’: il cinema di Bergman nell’analisi del regista sipontino Totaro

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
16 Ottobre 2009
Cinema //

bergmanManfredonia – Il giovane regista sipontino Vincenzo Totaro, già premiato al Festival del Cinema Indipendente di Foggia (VII edizione), ci porta alla scoperta della cinematografia del regista svedese Ingmar Bergman con una serie di interventi già proposti su Cinemadonia e raccolti in articoli per Stato Quotidiano.

I film L’ora del lupo e Il rito sono stati girati nella seconda metà degli anni 60 e vengono considerati minori, soprattutto dalla critica europea. Totaro spiega quanto sia erronea questa catalogazione.

L’ora del lupo (Vargtimmen)
Svezia 1966/1968 di Ingmar Berman, con Max Von Sydow, Liv Ullman, Erland Josephson, Ingrid Thulin.

“Film controverso – spiega Totaro – appartenente alla fase calante di Bergman prima della rinascita degli anni settanta, denso di elementi autobiografici. Il film riesce a fare molta paura. Con pochi tocchi e un ritmo lento, ossessivo, a tratti esasperante. Qui si riprende e riaggiorna il cinema espressionista. Il risultato è a tratti folgorante con sequenze che riescono a mettere i brividi così, scollate dal contesto; non c’è bisogno di vedere e capire il resto, fanno paura e basta, proprio come le immagini che degnamente popolano gli incubi e significano solamente sé stesse.Quanto basta per accusare il film di eccesso estetizzante, ma l’immagine, in un film del genere, è tutto. Va caricata, esasperata in senso espressionista. I volti divisi dalle luci e dalle ombre, quei contrasti che rendono tutto straniante e irreale. Sven Nykvist fa, tanto per cambiare, una fotografia stupendamente contrastata e questo rende il compito di Bergman più facile.

Se proprio vogliamo trovare un difetto, possiamo riferirci alla incostanza di Bergman nel registro onirico. Non ha sempre i tempi e le intuizioni giuste e se nella breve distanza se la cava alla grande, nelle sequenze più lunghe perde qualche colpo (in questo perde la sfida a distanza con Epstein e con il Dreyer di Vampyr). Si tratta comunque di una puntualizzazione un po’ forzata che non sminuisce il valore del film.

bergman2In una sequenza il protagonista afferma che il tempo, certe volte si ostina a non trascorrere; si mette così a contare i secondi fino a raggiungere il minuto e il film si ferma così, aspetta per un minuto prima di riprendere la notte popolata di incubi e vampiri. Chiaramente debitore del Vampyr di Dreyer nonchè di una lunghissima schiera di film del periodo muto non solo espressionisti, ma anche appartenenti alla prima avanguardia e al surrealismo. L’isola pare un luogo ideale per materializzare gli incubi interiori e il terrore scorre irrazionale e incalzante nella notte come nel giorno.
Per molti critici questo è l’inizio della mancanza d’ispirazione del regista,  ma auguro a tutti gli autori di avere mancanze d’ispirazione di questo genere …
Il rito (Riten) Svezia 1969, di Ingmar Bergman,
con Ingrid Thulin, Gunnar Bjornstrand, Erik Hell, Anders Ek, Ingmar Bergman.

L’arte e il suo contrario . L’arte è il suo contrario (replay) in questo film arrabbiatissimo di Bergman. Con PERSONA l’autore scandinavo aveva alzato il tiro, nascondendosi dietro un generico quanto fuorviante intimismo; qui lo scontro è frontale. L’arte e la morale si scontrano senza esclusione di colpi; l’arte ha dalla sua l’utilizza forsennato e abbacinante della sessualità, sovraesposta e pronunciata; la morale comune ha potenza carsica e sgretola l’arte dall’interno, svuotandone contenuti e contenitori. Gli attori sono simbolo di pienezza rituale ma insidiati dalla morale comune diventano poveri depressi capricciosi e un po’ maniaci, dei vuoti a perdere, patetici e grotteschi.Il giudice, dal canto suo, vacilla di fronte alla mutaforme Thulin e scopre il peggio ( o forse il meglio nel senso di vero ) di sè.
Allora c’è il bisogno di una confessione e il caso vuole che il confessore sia lo bergma3stesso Bergman. Molti hanno speculato sulla distanza presunta tra Bergman e il suo personaggio, ma hanno tralasciato un piccolo, fondamentale, particolare: non si tratta di una confessione ma di un colloquio e il frate che ascolta tutto in silenzio non giudica, ma si volta dall’altra parte.  Il frate non impersona la morale comune e l’oppressione come si può facilmente dedurre, ma è un guardiano della soglia stanco e forse un po’ annoiato. Accompagna il giudice dall’altra parte,  e dall’altra parte c’è l’arte che scandalizza perchè al suo opposto c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di scandalizzarsi.
(del regista Vincenzo Totaro, continua)(immagini su gentile concessione dell’artista, fotografo Luigi Starace)

1 commento su "‘L’ora del lupo’, ‘Il rito’: il cinema di Bergman nell’analisi del regista sipontino Totaro"

  1. ho visto ieri Il Rito: a differenza della vostra visione di opposizione tra arte e morale, colgo una diversa opposizione principale, quella tra realtà e finzione, differenza mediata dalla ritualità e da un sistema a scatole cinesi di situazioni catartiche. il suddetto sistema crea un’inversione in termini del procedimento catartico, andando in fine a liberare lo spettatore dalla realtà e immetterlo nella pura ritualità (al contrario del tradizionale metodo catartico).
    il filo che unisce il tutto è un disgusto coprente verso l’esperienza corporea che infine deve morire purificata, non a caso, da una falloforia.
    …..forse e anche….. Guido

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