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Mentre nelle sale spopola senza freni l’attesissimo film di James Cameron, in silenzio passa già da una settimana l’ultimo lavoro di Mostow, il regista del bel thriller U-571 nonché “assassino cinematografico” della serie Terminator (con il terzo capitolo).
Surrogates – questo il titolo originale – narra di un futuro ipotetico in cui, grazie alla solita avanzatissima tecnologia, […]1.
Tale spunto apre la storia del film ad una linea di carattere investigativo con tratti noir, in cui il tema della separazione fra persona e maschera – fin troppo facile giocare sull’etimo – continua ad aleggiare sino alla conclusione, non tanto per meriti o scopi registici, quanto per inconsuetudine della trama, che spinge lo spettatore ad attuare la stessa separazione e a “crederci”, vittima del meccanismo di immedesimazione.
I rischi di questa pellicola erano tanti, forse tantissimi.
In primis, pur essendo la trovata di discreta originalità, il concept del doppio e del replicante è stato mangiato e risputato sin troppe volte almeno dai tempi di Matrix. In seconda battuta, il necessario aspetto fanta-action rischiava di virare nella consueta americanata, complice la scelta di Bruce Willis come protagonista, che lo spettatore medio desidera in certe vesti, espressioni e situazioni, assecondate dalla produzione cinematografica da “incasso facile”. Il regista, infine, costituiva già da solo un rischio, dato il genere dei suoi precedenti lavori e il pessimo risultato conclamato, come si diceva, di Terminator 3. Queste le trappole principali che Mostow, invece, evita abilmente – o per fortuna, non ci è dato saperlo, solo sospettarlo – costruendo un film diligente, che conquista i suoi tempi, anche fatti di silenzi, medita sulle problematiche sociali di un futuro di plastica, gioca con una storia poliziesca imbevuta pure – ma non soprattutto! – di vivaci inseguimenti e divertimento tipico del filone (ed è impossibile non vedere in alcuni passaggi l’esperienza messa a frutto con T3).
Bruce Willis, che non ha mai conquistato del tutto la mia simpatia neanche con Pulp Fiction, è meno “il solito Bruce”, sembrando il regista cogliere l’occasione per evidenziare, giocando internamente alla trama, le sue convinzioni sull’attore, spezzandolo fra quel che potrebbe qualitativamente essere (l’operatore) e quel che, invece, è o rischia di diventare, caricatura di sé stesso (il suo surrogato).
Il film scorre serenamente fino alla conclusione, con uno sviluppo non complessissimo, ma neanche lineare, una sceneggiatura equilibrata e una direzione altrettanto composta. Pur non toccando la mediocrità per questo, comunque il lavoro non brilla, non ha picchi, convince come un telefilm interessante, ma non molto altro, risultando in una gradevole e onesta visione.
Forse Il mondo dei replicanti è, come i protagonisti, un po’ il surrogato di plastica di quel bravo regista di U-571, che, stanco, ozia in poltrona a rischio di piaghe da decubito.
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Preghiamo, come durante Surrogates, che Mostow si alzi e riprenda a camminare.
Ma lo facciamo con un po’ meno retorica del suo film.
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Voto: 6.5/10
Livello spoiler: 8/10
[…]1 è stato possibile costruire macchine in fattezze perfettamente simili a noi e controllabili da remoto tramite onde cerebrali; ciò ha permesso agli esseri umani di restare comodamente a casa in poltrona, portando a spasso il proprio replicante, col quale continuare ad avere relazioni sociali ed emozioni, ma senza esserne danneggiati (anche in caso di ferite o morte), oltre che di potersi scegliere un aspetto assolutamente personalizzabile (felicità dei disadattati). I problemi nascono con l’omicidio di un surrogato e conseguente imprevisto decesso del suo “operatore”