Ammesse come parti civili l’Ordine degli Avvocati BAT, il Comune di Andria e il Ministero dell’Interno, insieme all’associazione antiracket, mentre la prossima udienza è fissata per il 12 luglio prossimo. Si è tenuta un’udienza presso il Tribunale di Bari nel processo con giudizio immediato contro sei indagati nell’ambito di un’inchiesta riguardante estorsione, tentata e consumata, e usura con l’aggravante del metodo mafioso ad Andria.
Si è giunti così alle battute finali del primo grado di giudizio dell’inchiesta, che ha visto diversi arresti tra settembre ed ottobre dello scorso anno, tra cui alcuni esponenti del clan Pesce di Andria. Gli imputati sono i fratelli Oscar Davide e Gianluca Pesce, rispettivamente di 34 e 36 anni, entrambi in detenzione dal 29 settembre scorso. In processo anche Michela Altomare Caldarone, 28 anni, Giuseppe Loconte, 22 anni, Nicolas Nicolamarino, 32 anni, e l’avvocatessa Tiziana Favullo, 50 anni. Le accuse di estorsione e usura con metodo mafioso sono formulate dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia, Daniela Chimienti. Per Giuseppe Loconte e l’avvocatessa Favullo è stata concessa la richiesta di un processo con rito abbreviato “secco”. Nella prossima udienza potrebbe già esserci una sentenza per loro. Il pm, invece, formulerà le richieste per gli altri imputati.
Il Comune di Andria ha scelto di costituirsi parte civile per esprimere un netto rifiuto verso le organizzazioni malavitose e mafiose del territorio, chiedendo il risarcimento dei danni subiti dalla comunità.
Secondo le indagini, sono stati individuati vari episodi estorsivi, tra cui quello riguardante la presunta estorsione ai danni di un agente della Polizia Locale, residente ad Andria ma in servizio a Barletta, coinvolto in un incidente stradale con Michela Altomare Caldarone, compagna di Oscar Davide Pesce. Quest’ultimo avrebbe minacciato il vigile urbano costringendolo a riparare a proprie spese l’auto della donna, senza presentare denuncia all’assicurazione. Per quanto riguarda l’avvocatessa Favullo, l’episodio chiave sembra essere un presunto prestito usuraio concesso dai Pesce a un giovane commerciante. Inizialmente il debito era di 23.000 euro, ma il giovane avrebbe dovuto restituirne quasi il doppio dopo solo un mese. Preoccupata per le minacce rivolte al figlio, la madre del giovane si è rivolta all’avvocatessa indagata, che stava gestendo la vendita di un immobile per conto suo. Secondo l’accusa, l’avvocatessa Favullo avrebbe organizzato un incontro nel suo studio con il clan Pesce per trovare una soluzione al pagamento dilazionato del debito, sostenendo che con il ricavato dalla vendita dell’immobile la donna avrebbe potuto rimborsare il debito del figlio. In sede di interrogatorio, l’avvocatessa Favullo ha sempre respinto le accuse, dichiarandosi estranea ai fatti.
Lo riporta telesveva.it