Venezia, 20 dicembre 2017. Un’antica cantilena popolare decreta che il 13 dicembre, ricorrenza di Santa Lucia, è “il giorno più corto che ci sia” contro la verità scientifica del solstizio invernale.
Essa risuona nei vari dialetti comprovando una antica e intramontabile fede popolare. “Santa Lucia la cchiù corta dia” Santa Lucia il più corto giorno (salentino) “Par Sènta Luzì e’ dé e cor vì ” Per Santa Lucia il giorno corre via (romagnolo) “Santa Lucì nu passe de picì ” Santa Lucia, il giorno fa un passo (avanti) da pulcino (marchigiano)
Il detto, dunque, è ben radicato tra la gente e risale a secoli antecedenti il 1582 sino a toccare il 46 aC.
Tale credenza, tuttavia, non appartiene affatto alle fole poiché in quell’epoca la sfasatura fra calendario civile e calendario solare comportava che il solstizio cadesse proprio fra il 12 e il 13 dicembre, rendendo quindi questo il giorno più corto dell’anno in base ai calcoli dell’allora corrente calendario giuliano.
Il giuliano è un calendario cosiddetto solare, ossia calcolato sul ciclo delle stagioni; suo elaboratore fu l’astronomo greco Sosigene di Alessandria e spettò a Giulio Cesare nell’anno 46 aC, due prima del suo assassinio, di promulgarlo nel ruolo di pontefice massimo, ecco perché “giuliano”.
Cesare era oramai l’autocrate a seguito delle recenti vittorie riportate contro Pompeo e Catone, in seno alla guerra civile che aveva provocato attraversando il Rubicone verso Roma, a dispetto degli ordini senatoriali, la linea fluviale di demarcazione che nessun romano in armi poteva oltrepassare privo di autorizzazione.
L’istituzione, quale calendario ufficiale di Roma e dei suoi domini, sarebbe stata abbracciata via via dai popoli europei e delle Indie (America) imposta dalla cristianizzazione o semplicemente dall’occupazione degli occidentali. Rispetto all’anno astronomico, però, aveva accumulato un ritardo ogni anno fino ad arrivare a circa 10 giorni nel XVI secolo. Col passare dei secoli, infatti, il calendario giuliano aveva incrementato troppo la difformità tra il calendario civile e quello astronomico, a tal punto che apparve necessitante aprire un dibattito in seno ai padri conciliari di Trento.
La successiva riforma voluta dal bolognese Ugo Boncompagni, nelle vesti di papa Gregorio XIII, comportò, allo scopo di non mutare le inamovibili scadenze dell’equinozio di primavera e della Pasqua, che nel 1582 fossero cancellati i giorni dal 5 e al 14 ottobre, date che così non sono mai appartenute alla storia dell’umanità. Gregorio XIII non agì naturalmente in prima persona. Demandò al Cardinale Sirleto l’istituzione di un’apposita commissione, per la quale furono chiamati il matematico e gesuita tedesco Cristoforo Clavio, docente nel Collegio Romano e il matematico e astronomo siciliano Giuseppe Scala.
Il 24 febbraio 1582, infine, il papa da Villa Mondragone in quel di Monte Porzio Catone, Roma, emise la bolla “Inter gravissima” che stabiliva la data del 15 ottobre immediatamente seguente al 4 ottobre di quell’anno e che in futuro dovessero essere soppressi i giorni intercalari, i 29 di febbraio, negli anni divisibili per 100 ma non divisibili per 400, per un totale di tre giorni intercalari in meno ogni 400 anni.
Le nazioni si sarebbero adeguate alla novità in tempi diversi tra il XVIII e il XX sec e oggi, oltre a essere ancora adottato in area berbera, tradizionale del Nord Africa, il giuliano è usato nella liturgia ortodossa, complice per la data della Pasqua diversa rispetto alla cattolica.
Gregorio XIII, se per un lato ha avuto il merito di aver espresso un’indole progressista, dall’altro ha mostrato una retrograda inflessibilità storica verso gli ebrei, i quali, con la bolla “Antiqua iudaeorum” furono menati nelle braccia dell’Inquisizione, determinata a perseguitarli.
Nello stesso anno in cui fu resa esecutiva la riforma del calendario, proibì ai medici ebrei di curare i battezzati.
(A cura di Ferruccio Gemmellaro – Venezia)