DISQUISIZIONI su arte a prescindere, cosa distingue un autore di cinema da semplici “operai” del settore?
La risposta più ponderata che nei casi migliori ci si sente passare riguarda originalità (Matrix), capacità di affrontare temi socialmente importanti (La vita è bella) o abilità nello sviluppare un soggetto nuovo (Il Signore degli Anelli), ipotesi approssimative che riducono, poi, nella valutazione, altri lavori, complessi e assolutamente personali, a meri soggetti d’intrattenimento.
The Social Network, ultima pellicola di Fincher, fornisce su questa linea un pregevole esempio su cui meditare, al di là dell’evidente buona fattura. Non è, difatti, così importante dissertarne l’efficacia quanto le scelte che ne hanno permesso i risultati, quelli e non altri, i segnali di stile, il percorso autoriale (!) ridigerito e applicato. Naturalmente tale approccio non impedisce di soffermarsi sul resto, sul valore d’immediata percezione: la pellicola riesce, nei modi di un’avventura emozionante, a raccontare la nascita di Facebook, privandola controcorrente di tutto ciò di cui era commercialmente possibile parlare, fino al punto da non sentire quasi la presenza del soggetto stesso, che diventa solo pretesto e non protagonista artistico.
David Fincher, passato all’attenzione del grande pubblico per l’ottimo Seven – come spesso accade, per la sua dose di efferatezze piuttosto che per la sua concreta qualità – ha centellinato il suo percorso di lavori misurati, differenti, audaci, dai risultati quasi sempre apprezzabili, talvolta discussi, in certi casi memorabili. Il taglio noir delle sue opere è un marchio di fabbrica, talora forse fin troppo brand da sembrare inopportunamente presente: i colori sporchi, le tonalità sul verde scuro, le atmosfere cupe sono le fondamenta delle sue costruzioni immaginifiche, quasi un’ossessione che cerca di affrancarsi dalla semplice riproposizione per diventare uno strumento di lotta, un inquinamento trans-genere. Se per alcune pellicole poteva apparire un desiderio immaturo o per altre un compito fin troppo semplice, per The Social Network è la consacrazione di un progetto.
E’ impossibile non notare anche in questa pellicola la medesima necessità, le inclinazioni dark alle quali il regista è legato, ma è la riuscita su un contesto assolutamente estraneo a rendere consapevoli dell’altezza di Fincher, dal quale era assolutamente possibile attendersi una caduta autoreferenziale e stancamente vecchia; un autore, si diceva, capace di trasformare un tema giudiziario e argomento commerciale in storia avvincente, buia attorno al protagonista, luminosa all’interno del suo mondo, potente per contrasto. Ma non è solo questo sapersi riproporre a qualificare l’opera, quanto le tante soluzioni registiche osate con la sicurezza di chi ormai ha compreso – a ragione! – di non poter cadere: i continui usi del tele, le patinature, i giochi di luce e una fotografia, tutta, eccezionale valorizzano anche singole inquadrature, sequenze minori, donando loro una dignità che va oltre il banale raccordo – ancora una volta: autore! – lasciando gratificati persino di fronte a banali gare di canoe o balli da discoteca.
David Fincher firma, dunque, non la sua opera immancabile ma l’attestazione della sua abilità, liberando anche gli scettici dai sospetti di limitatezza applicativa, se non creativa. Si fa supportare per il suo lavoro da una squadra di attori fantastici, quasi tutti molto giovani, tra cui brillano i protagonisti – Jesse Eisenberg, Andrew Garfield e Justin Timberlake -, talmente bravi da far pensare di aver assistito all’ingresso ufficiale nello star system di futuri talenti del cinema.
The Social Network è una conferma per gli appassionati del regista di Fight Club e un banco di prova per lo spettatore distratto.
I facebookiani, invece, in cerca d’immedesimazione possono tranquillamente restare a casa a digitare sulla tastiera la loro ultima mediocre piccola azione quotidiana.
Voto: 8/10
Livello spoiler: 2/10
AltreVisioni
Radice quadrata di tre, L. Bianchini (2001) – inquietante horror friulano ricco di suggestioni oniriche * 6.5
Benvenuti a Zombieland, R. Fleisher (2009) – tra i migliori grotteschi horror assieme a Shaun of the Dead * 7
Luna Rossa, A. Capuano (2001) – insolito dramma camorristico di impronta teatrale * 8