Jojo Rabbit è un film di Taika Waititi – regista consacrato al grande pubblico con il suo Thor: Ragnarok- che subito, nonostante il tono scanzonato e il tema provocatorio, ha ben presto conquistato il favore della critica e la curiosità del pubblico.
Nominato a 6 premi Oscar, tra cui quello a Miglior Film, Jojo Rabbit si è presentato subito come l’outsider tra i candidati. Jojo Betler (Roman Griffin Davis) è un bambino di dieci anni e anche un fanatico del nazismo, abbastanza da scegliere Hitler, intepretato proprio dallo stesso Waititi, come suo amico immaginario. Jojo però è anche molto dolce, affabile, insicuro e abbastanza codardo da essere vittima di bullismo degli altri ragazzi della Gioventù Hitleriana, che ben presto lo paragonano a un coniglio (rabbit in inglese, appunto).
E’ un’anima candida, impacciata, sensibile, ma è anche devoto alla patria, fiero della sua discendenza ariana, intriso di cultura nazista fino alla punta più dorata dei suoi biondissimi capelli. Jojo Rabbit, in quanto punto di contatto tra satira e favola, si conclude con una presa di coscienza del protagonista, che non definirei come redenzione, proprio perché il piccolo Jojo non è mai stato colpevole di nulla se non del desiderio di far parte di un gruppo nel periodo in cui la base della congregazione era l’odio.
Ci sono diverse commedie che trattano il tema del nazismo, da opere immortali come Vogliamo vivere!(1942) e Il Grande Dittatore (1940) a una caterva di film sui nazi-zombie. In confronto però al numero di drammi sulla Seconda Guerra Mondiale le commedie sono ben poche, proprio perché il rischio di scivolare nell’esaltazione del nazismo o di minimizzare una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità è pericolosissimo. Del resto è uno dei crucci della satira e ancor di più del black humour: la gestazione di temi delicati corre sempre il rischio di sembrare un appoggio allo status quo di cui si vuol far beffa. Il regista, figlio di padre hawaiiano e madre con origini ebraiche, certamente non vuole questo e lo mette in chiaro sin dall’inizio.
Taika Waiti sceglie il punto di vista di un bambino e il suo amico-Hitler non è affatto Hitler, ma la proiezione di Jojo, delle sue paure e delle sue insicurezze: il dittatore è impacciato come il bimbo, è affabile, è tenero. E’ anche il supereroe, l’uomo perfetto, l’ispirazione massima, come Thor può esserlo per un bambino d’oggi. Chi è il nemico del supereroe buono, senza macchia e senza paura? Ovviamente gli ebrei, descritti ai bambini come mostri, caricaturali creature con le corna, che vivono a testa in giù nelle caverne. L’esaltazione dei dittatori parte spesso dalla presunta vicinanza che questi ultimi avrebbero con il popolo. Spesso infatti i peggiori regimi dittatoriali sono stati appoggiati dalle masse proprio quando le elité precedenti sono apparse sempre più distanti dai problemi reali. Persino i bambini dunque si sentivano parte di un grande campeggio nazional-socialista di cui Hitler era un invisibile capo- scout.
Cinematograficamente Waititi si rifà espressamente allo stile di Wes Anderson, soprattutto a Moonrise Kingdom- Una fuga d’amore(2012): “inquadrature simmetriche e poi partono i Kinks”, citando una canzone di un nota one-man band indie romana. Dal film di Wes Anderson non solo è ripreso il rigore formale e un’attenzione maniacale a ogni dettaglio scenografico ma anche il tema del primo amore con tutta la sua infantile solennità. Ed è proprio grazie all’amore, quello di sua mamma Rosie (Scarlett Johansson) e di Elsa (Thomasin Harcourt McKenzie), una ragazzina ebrea che sembra non avere in testa nessun paio di corna, che Jojo sbatterà il suo amico immaginario fuori dalla finestra.
Non mancano i momenti drammatici e la morte, perché la guerra è morte, il fascismo è morte, l’odio è morte. Una commedia non può e non deve nasconderlo. Nemmeno un film di formazione come Jojo Rabbt scritto apposta per essere goduto da grandi e piccini può estraniarsi totalmente da una realtà che è bene non dimenticare mai. Momento iconico del film? Il Capitano Klenzendorf (Sam Rockwell) che sfoggia la sua divisa nazista decorata con orpelli, glitter e strass. L’ultimo baluardo dell’originalità in un mondo di cloni.