MANFREDONIA (FOGGIA), 26/02/2022 – (corriere) Siccome «una famiglia vera e propria non ce l’ho», se n’era fatta una sua.
Ognuno aveva un ruolo — il fratello maggiore era Tobia, il factotum, le sorelle erano la Tina, cui era affidata la casa, e Vittoria, cui toccavano i cani — e un soprannome: Marco era detto Trìcchete, per la rapidità dei movimenti; il comandante della barca era il Cumpé, «compare» in dialetto di Manfredonia (Lucio parlava il bolognese, il napoletano e il pugliese); Stefano, artista da lui lanciato, era Brillo, e la sua fidanzata ovviamente Brilla (non venni risparmiato neppure io, e fui Poldo, per lo dannoso vizio della gola). Ma il vero capofamiglia occulto era la madre sarta, di cui teneva la foto sul comodino.
Fonte: corriere
Il padre però non era «un bell’uomo che veniva dal mare e parlava un’altra lingua», era il direttore del tiro a volo di Bologna. Lucio raccontava che da bambino era cresciuto con tanti «figli ’e bottana smarocchinata», figli della guerra, «di nascita e colore incerti», e voleva immedesimarsi in uno di loro: «Mi sentivo uno zingaro, un apolide dal patrimonio genetico disordinato. La messa in scena della tragedia è la tragedia vera». Lucio non amava Sanremo. Era vicino di stanza di Tenco nel 1967, fu lui a dare l’allarme, a dire che Luigi stava male, ma di quella notte non ricordava nulla. (corriere)