CHI ha facilità o naturale curiosità a uscire dalla visione del singolo film per elevarsi a spettatore di una filmografia gode, come talune volte accade, del piacere aggiuntivo di assistere al percorso umano che ne è stato energia. E’, questo, fenomeno occasionale giacché spesso il succedersi delle opere denota esclusivamente evoluzione tecnica, di furbizia, in generale di “animalità” (nell’accezione di brutale meccanismo di sopravvivenza), ma si resta, proprio per questo, piacevolmente colpiti quando ci si ritrova a costatarlo, e ciò a prescindere dalla qualità dello specifico prodotto. E’ il caso de L’uomo nero di Sergio Rubini, regista che affianca la propria passione per la settima arte per raccontarci e raccontarsi qualcosa del proprio passato, del proprio vissuto, della propria emotività, attraverso un tracciato catartico che pare essere per lui almeno di pari importanza del cinema stesso.
Il terreno del film è la memoria di un uomo, al capezzale del padre, e la storia i suoi ricordi d’infanzia, i momenti significativi, i suoi amori e timori, i rapporti con i coetanei, quelli con i genitori, lo zio, la propria terra. Il tutto viene raccontato con mano leggera, sapiente, ricca di emotività e commozione, vissuta e comunicata, ed è occasione per un viaggio di ri-crescita (per regista e protagonista) e di ripensamento del proprio esperito.
Ambientato in Puglia, nelle terre care a Rubini, la scenografia, i costumi morali, gli usi e le espressioni locali ancora una volta non sono banalmente il pretesto campanilista per una valorizzazione ingenua, utile solo a irriducibili provinciali, ma decorazione narrativamente funzionale, pennellate di un quadro magico che diventa sogno ed eleva una cultura regionale; e proprio un quadro è co-protagonista del gioco cinematografico, ossessione del personaggio principale (interpretato dallo stesso regista), capostazione e pittore per passione con una devozione per Cézanne: vittima delle angherie e sottovalutazioni di un critico ignorante, ma di peso nella sua città, e di un suo lacchè, Ernesto proverà a imitare un dipinto del maestro e a conquistare una rispettabilità artistica in paese attraverso una mostra.
Le varie linee del film s’intrecciano perfettamente, mai sottraendosi spazio. Così viene dato ugual peso, attraverso la fantasia portatrice sana di Gabriele, alle vicende dei genitori, alle loro liti e riappacificamenti, alle gesta del fascinoso, audace e immaturo zio (coesistente alternativa al padre nel percorso di formazione), alla vicenda del quadro e della sua copia, addirittura arricchendosi questa verso la fine di un coupe de theatre che allontana garbatamente il film dalla sua natura prevalentemente rappresentativa.
Gli attori sono tutti bravi, nessuno escluso: l’istrionismo di Rubini è correttamente moderato, il “maledettismo” di Scamarcio ben mescolato col suo personaggio, le disperazioni della Golino funzionali e mai fini al virtuosismo, sino a giungere a un Micheli che ritrae un ottimo ruffiano meschino di paese.
Accusato dai più di allargamento nella retorica, film contro il provincialismo che diventa provinciale, L’uomo nero è in realtà tutt’altro che questo; si resta solo con il sospetto, data la curata fattura, che la pellicola aspirasse a livelli maggiormente mitici, dunque deficitario delle vette che si proponeva; tuttavia, in franchezza, diventa difficile discernerlo.
E’ facile, altresì, ipotizzare che Rubini possa a breve conquistare l’olimpo dei tanti pittori della nostra nazione, scalzando chi pare non avere più tanto da dire nonché coloro che, da tempo, non sanno forse più farlo.
Voto: 7/10
Livello spoiler: 5/10