L’AVVENTO dei voli spaziali aveva fatto credere di poter ricalcare entusiasticamente l’antico e impeccabile verbo Atterrare, già in uso nel 1290, oggi col significato prevalente di “prendere terra da un volo”. A seguire la novità del verbo Allunare del 1959, infatti, stavano per essere generati i vari Ammartare, Aggiovare… fortunatamente tutti abortiti; forse il primo esempio di una composizione lemmatica che sarebbe stata infinita quanto l’universo.
Atterrare, invece, in dimensione moderna è da assumere semanticamente nell’inequivocabile significato cosmico di “adagiarsi su di un corpo celeste o spaziale”, astronave madre inclusa. Si dovrà pertanto dire Atterrare sulla Luna, su Marte… sull’astronave, se non si vuole, specie per quest’ultima, utilizzare i vecchi e familiari Approdare, Attraccare e Sbarcare, tutti attinti alla terminologia della navigazione marina, come del resto ha già fatto l’Aeronautica, assimilando “andare per cielo” ad “andare per mare” e utilizzandone addirittura il miglio e il nodo quali unità di misura della distanza e della velocità.
Il buon esempio ci viene giusto dall’Aeronautica, la quale ha adottato il verbo Ammarare, con Ammaraggio, per ogni operazione di discesa su un qualsiasi specchio d’acqua, cioè non esclusivamente sul mare. Il termine indoeuropeo Mare, difatti, invariato dal latino, esprime nella sua origine sanscrita il senso di “specchio d’acqua”, poi attestatosi nell’indicare le acque che circondano i continenti.
Nel corrente 2014, poi, qualcuno ha pensato bene di lanciare il verbo Accometare, donde Accometaggio, ispiratosi allo storico atterraggio del modulo europeo Philae sulla cometa codificata 67P Churyumov – Gerasimenko. Forse non si è reso conto di avere suggerito l’apertura di un nuovo percorso cosmico-lemmatico, poiché stavolta il neologismo non sarebbe più sul nome proprio che identifica uno specifico corpo celeste, vedi Luna con Allunare, Marte con Ammartare, Giove con Aggiovare… ma sui loro sostantivi generici quali Pianeta, Satellite, Stella, Cometa… e si avrebbe così Appianetare, Assatellitare, Astellare e Accometare.
Se tutto questo sta per evoluzione o ammodernamento della lingua, che si voglia dire, allora, senza prendercela, accettiamo il tradimento storico-linguistico perpetrato nell’aver adottato, per non contravvenire alle intransigenti volontà delle donne in carriera, il termine “semplicemente” anti-maschilismo – non quindi evolutivo – di Sindaca come femminile di Sindaco, accantonando l’importante particolare che il titolo è a proposito del ruolo, dell’incarico, non del sesso di chi lo ricopre.
La stessa Treccani, cavalcando l’onda, ne cita il lemma anche al femminile riportando “Pur essendo comune l’uso di il sindaco al maschile per indicare una donna che ricopra tale carica, si va affermando progressivamente il femminile sindaca. Di uso solo scherzoso o ironico il femminile sindachéssa, usato per indicare la moglie di un sindaco!”
Se un termine si va affermando, come cita Treccani, non è detto che sia corretto sotto ogni profilo, bensì tollerato o sopportato a scapito però della limpidezza lessico-linguistica.
“La sindaca ha riportato la notizia che il modulo Philae è accometato” una frase questa che rischiamo di introdurla nel linguaggio comune se non si pone immediato rimedio. Dal passato ci trasciniamo diversi errori di metatesi (spostamento di lettera) affermatisi in ogni caso nella lingua, vedi Fradicio e Fradiciume corrotti dai regolari Fracido e Fracidume del latino Fracidum, Sudicio e Sudiciume corrotti da Sucido e Sucidume del latino Sucidum, Strupo corrotto da Stupro del latino Stuprum, o addirittura l’abbaglio ricorrente di unificare i due termini in Strupro, questo rintracciato in alcune carte ufficiali.
Occorrerebbe introdurre il reato di contaminazione linguistica. Se non è tradimento, è almeno una grave irriverenza alla nostra storia e sta a chi scrive, proferisce o recita per un pubblico, specialmente scolastico, arginare o invertire l’irragionevole tendenza.
Come avevo già riportato altrove, dovremo allora accettare l’involuzione maschile di Sentinello e di Guardio per distinguerli dalle donne che ricoprono tali servizi. Sarebbe ancora un voltafaccia storico-linguistico giacché Sentinella, in uso dal XIV secolo, è il sostantivo deverbale di un antico Sentinella(re) questo iterativo di Sentinare “evitare con impegno un pericolo”, derivato da Sentina “accortezza”, ricavato dal verbo di origine indoeuropea Sentire.
Guardia, infine, già così com’è nel vocabolario latino medievale, è il sostantivo astratto di Guarda(re), verbo questo tradotto dal francone Wardon “stare in guardia” e già in uso dal XIII secolo. In Guarda è stata inserita la vocale “i” allo scopo di formare il suffisso di tradizione greco-latina “ia” per i sostantivi in maggioranza astratti con il risultato di Guardia.
Il femminile Dottoressa – oggi talvolta Dottora – è invece tramandato giustificabile, poiché la professione medica per una donna, in origine, era normalmente diversificata da quella dei colleghi uomini. Il genere femminile del vocabolo si è così attestato in lingua per trascorse ragioni di decenza, ereditato da quando solo a un medico donna era normalmente concesso “toccare” bimbe, signorine e signore, interessarsi delle malattie femminili e dedita all’ostreticia.
Dottore e Dottoressa, allora, ognuno con le proprie idoneità. La storia, nondimeno, alla quale occorre affidarci senza deroghe, ci dice viepiù che è accettabile Ostetrico quale maschile di Ostetrica. L’ostetricia è stata sempre prerogativa delle donne, ebree, egiziane, greche, romane, sino al Seicento quando fu accreditata la pratica del chirurgo francese François Rousset il quale, nel 1581, avendo sperimentato il parto cesareo, operazione che salvò la vita a una partoriente, si meritò il titolo di ostetrico.
La spiegazione storica del termine al maschile, poi, è supportata dalla zoologia nello studiare il comportamento dei maschi, i quali soccorrono le femmine sia nella deposizione delle uova sia nell’incubarle, come il rospo ostetrico o l’ippocampo (cavalluccio marino). Il termine Avvocata o Avvocatessa, invece, è l’esito di una malastoria e che per questo è preferibile archiviarlo definitivamente.
Nel 1881, Lidia Poët di Pinerolo fu la prima donna a laurearsi in giurisprudenza in Italia, precisamente nell’ateneo di Torino.
Dopo il praticantato, presentò regolare richiesta per essere iscritta all’Albo, la quale fu accettata, ma ebbe immediatamente la sgradita sorpresa di subire la revoca da parte della Corte d’Appello torinese su ricorso del Pubblico Ministero. La Cassazione, alla quale si era appellata, confermò la sentenza. Le ragioni? Furono due, una d’ordine naturale considerato che, essendo una donna, mensilmente durante la settimana delle mestruazioni sarebbe stata indotta a formulare giudizi professionali privi della dovuta serenità.
La seconda, di carattere giuridico, evidenziava una grave contraddizione poiché alle donne era inibito di poter testimoniare nei processi dello Stato Civile ed essere testimoni per un testamento notarile e simili.
Da aggiungere, infine, che, in base alla legge matrimoniale, erano obbligate a seguire il coniuge ovunque egli intendesse fissare il domicilio famigliare e ciò avrebbe vanificato il suo comportamento professionale eventualmente in atto.
Una procuratrice legale, quindi, con tali pesanti limiti era indicata con Avvocatessa (o Avvocata) per distinguerla dai compiti maschili.
Non ammissibili, dunque, Avvocata e Sindaca nella nostra società, semplicemente perché oggi, coloro che ne hanno titolo, occupano quel ruolo del tutto speculare ai loro omologhi, salvo che non si dimostri che le loro concernenti competenze legali e amministrative siano assolutamente diverse.
Prendiamo ora in esame i casi particolari di Consigliere e Soprano. Il primo, dal latino neutro “Consiliarium è sopravvissuto a un precedente Consigliero dal quale si sarebbe ricavato il genere femminile; il vetusto maschile in “o” era ormai divenuto un fossile ma si è voluto farlo
resuscitare con il brutto femminile in “a”.
Soprano, assegnato a una cantante, è essenzialmente aggettivo dal latino volgare “Superanus” da Super “sopra”, “che sta sopra”, “superiore”, poi ridotto in “Supranus” con la perdita della vocale “e”. Si riferisce a una tonalità acuta naturale delle donne, ma anche dei fanciulli e di alcuni uomini, quindi “canto soprano”, vale a dire che sta al di sopra di altri canti.
Altri nomi, vedi Agente, Cliente, Dirigente, permangono ancora inviolati. Il motivo è sempre da ricercarsi nella lunga storia delle parole, innanzitutto della loro origine greco-latina, la quale imprime quella desinenza che la lingua ha il dovere di preservare, se non si vuole scimmiottare altre culture.
Il cattivo esempio, questa volta ammaliati di anglicismo, ci viene purtroppo ancora dai politici, leggi e odi Spending review al posto di “revisione della spesa (conti)”, Welfare per “benessere”, Jobs act per “legge per il lavoro”, ancora un regresso rispetto alla passata invasione di “nella misura in cui”, “a monte di”… reiterate locuzioni comuni ma almeno italiane.
Possiamo così attenderci che qualcuno salti fuori con l’espressione idiomatica “Piovono gatti e cani” uniformandosi con l’angloamericano “It’s raining cats and dogs” rigettando le poetiche nostrane “Piove a catinelle – Piove a dirotto – Piove che Dio la manda”. L’adozione di una lingua ufficiale negli organi istituzionali europei e mondiali non deve essere a scapito di quelle nazionali, così come i dialetti devono essere preservati e non inquinati dalle lingue, sarebbe per davvero la decadenza storica di un popolo, della sua memoria.
(A cura di Ferruccio Gemmellaro – ferrucciogemmellaro@gmail.com)
Redazione Stato