“Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. (Gabriel Garcia Marquez)
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∞ Il destino veste Pulixi ∞
di Piero Ferrante
Riuscite a immaginare cosa succederebbe se il vostro peggior incubo prendesse forma umana e stuprasse spietatamente la realtà? Riuscite a immaginare le lacrime di quel tempo infinito, le mani sul corpo della vita, la realtà violata che piange e implora, schiantata contro un muro, incapace di riprendere a scorrere? Se non ce la fate, per troppe remore o per mancanza di cinismo, ve lo spiega Piergiorgio Pulixi con “L’appuntamento” (edizioni E/O).
Un romanzo incalzante, scritto magistralmente, che rivela tutta la classe di Piergiorgio (e che lo conferma non oltre come una promessa, ma come un’indiscutibile certezza del firmamento noir italiano). Un libro così spietato da far male. Un noir psicologico cupo, ossessionante, ansiogeno, perverso. Scenografico nella sua semplicità. Filmico. Un copione di sangue e rabbia che vortica intorno a un incontro. Lei, donna di classe di ma non troppo. Lui, uomo potente e senza limiti. Tra di loro una chimica astrusa di domande inquietanti e imbarazzanti che sfondano il muro dell’intimità, strisciano viscide su terreni complicati. Lui chiede, lei obbedisce. Poi il copione si ribalta, deboli e forti si confondono, la partita si apre, una partita a scacchi col destino dove le parole prendono il posto delle pedine. Chi sbaglia a muoverne una è perso. In tutto ciò il tempo si annienta e comincia un’altra vita dove tutto è ben peggiore di quello che sembra. Le persone entrano ed escono. Ci sono pupari, fili e pupi. C’è un teatro grande come Roma. Quel che invece non c’è sono gli steccati. La tecnologia entra ovunque. Basta un tasto per cambiare le vite, decidere chi va e chi resta.
“L’appuntamento” è una fosca predizione del futuro, di quel che potrebbe essere il mondo se la tecnologia finisse (oppure lo è?) nelle mani sbagliate. Potrete spaccarvi la testa contro un muro di cemento, schiantarvi a cento all’ora contro un albero, strapparvi con le mani, uno ad uno, i capelli o i peli pubici, martellarvi chiodi nelle parti basse. Eppure nulla, neppure il rito più apotropaico, più bestiale, più inumano, potrà salvarvi dalla spirale che vi avvolge non appena ne avrete letta la prima parola. Un gorgo esiziale che se ci entri, non hai scampo. Sei tu l’invitato. Ed è un invito a cui non puoi obiettare nulla. Tu sei parte di quell’appuntamento. Ti si riversa addosso, come una secchiata ghiacciata di attesa, di ansia, di violenza; odio, vendetta e ingiustizia saranno le lancette del tuo orologio. Alla fine, resterete tu e Pulixi. Lui implacabile, tu stordito e immobile su una sedia, arreso.
Piergiorgio Pulixi, “L’appuntamento”, E/O 2014
Giudizio: 4 / 5 – Prede
Da leggere ascoltando: Litfiba, “La preda”
– Dello stesso autore abbiamo recensito:
Una brutta storia, E/O
La notte delle pantere, E/O
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∞ Intervista ad Antonio Lorenzo Fabbo ∞
di Marilù Oliva
ATTIVITÀ: scrittore/videomaker freelance
SEGNI PARTICOLARI: spesso incapace di adottare dei filtri.
LO TROVATE: virtualmente su Facebook, oppure qui sul mio sito: www.antoniolfalbo.it; fisicamente è più complesso: Ora sono a Torino. Ma mi muovo spesso e volentieri, anche all’estero.
Cosa rispondevi da piccolo quando ti chiedevano che lavoro avresti voluto fare da grande?
Il progettista di trattori agricoli, possibilmente cingolati! La mia prima aspirazione lavorativa fu quella. Mio nonno materno era agricoltore e il vedere e poter stare su quelle macchine all’opera, fin dalla prima infanzia, condizionò profondamente il mio immaginario.
E adesso, cosa dici?
Che una volta esaurita la spinta creativa della scrittura, forse potrei dedicarmi serenamente a riattivare parte di quelle coltivazioni e terreni ormai incolti.
È uscito per Armando Curcio Editore “Finché brucia la neve”. Ti chiedo un sottotitolo al libro.
“Il giardino reciso”. Così su due piedi direi questo, o comunque qualcosa del genere. Non sono un grande amante dei sottotitoli e di solito il titolo con cui inizio uno scritto è quello che poi lo accompagna fino alla fine. A volte è questo stesso a ispirarmi la storia o in qualche modo ad aiutarmi a delinearne il profilo.
Ci spieghi cos’è il “burn-out”, perno attorno al quale ruota il romanzo?
Il “Burn-out” (letteralmente: essere bruciati, esauriti, scoppiati) è un concetto che è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di logoramento psichico e fisico, registrati nei lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro personale e quello della persona aiutata. Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici (tachicardia, cefalee, nausea, ecc.), sintomi psicologici (depressione, senso di colpa, risentimento, indifferenza, paranoia, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti). I disagi si avvertono dapprima nel campo professionale, all’utenza viene offerto un servizio inadeguato ed un trattamento meno umano, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale. Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool o di sostanze psicoattive, ed il rischio di suicidio è molto elevato.
Tu l’hai mai provato?
Vi ero entrato dentro con entrambi i piedi, ecco. Diciamo, però, che l’aver precedentemente scoperto sul campo dell’esistenza di tale sindrome, cosa essa fosse, mi ha poi aiutato a capire, più o meno in tempi rapidi, quale nome attribuire al malessere con cui (seppur in forma più lieve di quello stigmatizzato nella narrazione del romanzo) io stesso iniziai faticosamente a convivere. E così a cercare di porvi un rimedio.
Altro tema affrontato è quello della schizofrenia e delle sue potenzialità…
Qui la questione si fa spinosa: o si rischia di cadere in facili luoghi comuni e idealizzazioni romantiche o necessiterebbe di proseguire un dibattito da sempre inesauribile. In più, non avendo i requisiti di studi specifici, preferico risponderti così, con questa citazione: “La Pazzia, lungi dall’essere una anomalia, è la normale condizione umana. Non esserne consapevole, se essa non è grande, significa essere pazzi. Esserne consapevole, se essa è piccola, significa essere disillusi. Esserne consapevoli, se essa è grande… significa essere geni. (Fernando Pessoa, La divina irrealtà delle cose)
Il romanzo è ambientato in una comunità psichiatrica dove molto labile è, per dirlo alla maniera della quarta di copertina, “il limite che porta ad essere chi svolge un servizio per fornire un aiuto in chi a sua volta ne necessita con urgenza.” Ma questo limite non è forse in agguato tutti i giorni, in ogni dove?
Sì, certo. Anche se in misura e con risvolti differenti. In questo caso specifico ad essere chiamati in causa sono aspetti della nostra interiorità che talvolta si reggono su basi già di per sé molto fragili. L’etica e la morale personali, gli introietti derivanti dalla nostra educazione (che spesso sottovalutiamo), se messi su un banco di prova concreto, ossia in relazione ai propri reali limiti emotivi, possono generare una sorta di tilt. Riconosciamo noi stessi, e nel tempo strutturiamo la percezione del nostro IO, su slanci umani (come quello del voler aiutare il prossimo) molto idealizzati e che spesso, quindi, poi si infrangono contro una realtà che ci vede incapaci di sopportare a lungo termine l’usura emotiva. Al contempo, però, sono proprio questi slanci che ci spingono a persistere, in virtù del fatto che non si tratta di una resa qualunque. La resa in questione viene percepita prima di tutto come una disgregazione intima, in cui molte delle certezze che si hanno su se stessi andrebbero sgretolate in modo insanabile. “Aiutare qualcuno”, viene visto e percepito più come un aspetto legato all’altruismo o alla sensibilità umana (cosa anche vera), più raramente, invece, è un concetto che si associa “all’esserne capaci”, quindi in grado di filtrare e reggere tutto il bagaglio emotivo, fatto di frustrazioni e spinte avverse, che questo implica.
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