Quando Alessandro Zito, presidente dell’associazione antiracket, cercò consiglio, quattro costruttori gli suggerirono di “trovare una soluzione” con chi chiedeva il pizzo. Zito, che aveva subito minacce e attentati, riferì in un processo il contesto di pressione e rassegnazione di chi subisce queste richieste. Ha raccontato di aver trovato una busta con proiettili nella cassetta della posta nell’agosto del 2012 e di essersi consultato con altri imprenditori, che gli suggerirono di prendere accordi, considerandolo un fatto quasi normale.
Nel 2018, un commerciante di una catena di negozi reagì con rabbia dopo essere stato interrogato dalla polizia, poiché intercettazioni avevano rivelato che pagava regolarmente il pizzo: 4mila euro a Natale e Pasqua. Non negava di pagare, ma si mostrava preoccupato che le autorità ne fossero a conoscenza.
Un costruttore si presentò persino a casa di Federico Trisciuoglio, un boss noto nella zona, per discutere di un pagamento pattuito. Le intercettazioni hanno registrato una conversazione in cui il boss esprimeva insoddisfazione per i ritardi. Nonostante le evidenze, convocato dalle autorità, il costruttore negò di aver subito pressioni, affermando di essersi recato dal boss solo per acquistare un’auto.
Un altro esempio del “metodo Foggia” è la figura del messaggero “amico”, incaricato di trasmettere le richieste dei clan. Nel 2018, due fratelli imprenditori agricoli vennero avvicinati da un noto intermediario che intimò loro di contribuire, con la promessa di “guerra” a chi rifiutava. La minaccia si concretizzò pochi mesi dopo con una serie di bombe, un brutale promemoria di come vada rispettata la regola del “pagare in silenzio”.
Lo riporta ReteGargano – La Gazzetta del Mezzogiorno.it