Manfredonia (Fg), 31 ottobre 2022 – Ogni anno la Chiesa ci invita a celebrare a commemorare i nostri cari defunti. Sono giorni nei quali, più che in altri, ci confrontiamo con l’esperienza della morte, e di riflesso, con il senso della vita, dal suo nascere al suo finire.
Certo, non si sceglie né di nascere nè di morire. Nascita e morte sono fortemente intrecciati tra di loro, come due limiti tra i quali si gioca ogni vita: quella nostra e quella altrui. Quella di ogni creatura. Limiti che bisogna accettare e con cui bisogna imparare a convivere, avendo sempre davanti la tentazione o di rimuoverli o di trasgredirli.
Tuttavia, se è vero che non si sceglie di nascere, ma si sceglie “come” vivere, allo stesso modo è anche vero che non si sceglie di morire ma si può scegliere che posto o che senso dare alla morte. Ma può avere un senso la morte? E’ questa la domanda che inconsciamente ci poniamo quando, come in questi giorni, ci rechiamo presso le tombe dei nostri cari per commemorarli.
L’unico senso che la morte ha, come ci hanno insegnato i greci, è che essa si trova già inscritta nell’atto del nostro nascere. La morte è un atto della vita, diceva il grande teologo K. Rahner. Atto ultimo, dove la vita si compie e non solo finisce.
Purtroppo la nostra cultura e l’attuale visione consumistica delle cose, fondate in modo tragico sul delirio di onnipotenza, hanno separato la morte dalla vita, coltivando un mito di immortalità che non può né perseguire né garantire. Bisognerebbe insegnare non solo a vivere, ma anche a nascere e a morire, anticipando simbolicamente la propria morte.
Insegnare a nascere significa insegnare a ricominciare dai fondi oscuri dei propri fallimenti, a rialzarsi dalle proprie cadute, accogliendo e coltivando la vita ogni giorno. Non si nasce una volta sola, ma si nasce ogni mattina, quando, come di fronte a un bivio, dobbiamo scegliere se continuare ad amare la vita, prendendocene cura, o arrenderci. Scegliere se abdicare o lottare.
Ma, oggi, proprio perchè nessuno insegna a fare questo, ecco che la vita, spesso, si trasforma o in un banale e stupido gioco che non porta a niente, oppure diventa un peso insopportabile, che stancamente ci trasciniamo tra abitudini che ci infiacchiscono e fughe che ci illudono. Tra evasioni che stordiscono e soddisfazioni che inaridiscono.
E, allora, ci scopriamo più morti che vivi, arrivando all’appuntamento con la morte – quella fisica e corporale – avendo mancato l’appuntamento con la vita. Sono tanti coloro i quali, morti dentro, si lasciano morire anche fuori: nelle relazioni, nei progetti, nei sogni, nella creatività, nella partecipazione, nella lotta per ciò che è giusto. Chi è spento dentro non si indigna, si rassegna, Si adegua e si omologa. Non vive ma vegeta.
Ma non posso imparare a vivere se allo stesso tempo non imparo anche a morire, imparando a perdere. Infatti, la morte mi insegna che nulla è mio, neanche io. E se neanche io sono mio, allora neanche le persone che dico di amare o le cose che possiedo, il tempo che mi è dato, i ruoli e gli incarichi che momentaneamente rivesto, lo sono. E se qualcosa, o qualcuno, è mio, lo è solo nella forma della cura e della responsabilità. La morte mi responsabilizza e non mi demoralizza.
Ma, oggi, in una cultura che mi incita a pensare che “tutto è (o deve diventare) mio”, questo approccio appare anacronistico. A riguardo, la psicanalisi dice che è saggio imparare ogni giorno a far morire il proprio io per impedire alla morte di farmi soffrire quando questo io non sarà più.
Insomma, ci vuole distacco, vivendo con sobrietà, equilibrio, senso della misura. Il distacco indica quella libertà interiore che ci consente di avere uno sguardo nuovo sulle cose, su noi stessi e sugli altri, sul tempo fatto di presente e di futuro, accettando il “divenire” senza sentirci padroni di niente, vivendo ogni stagione della vita in modo appropriato, anche quella dove il morire si fa più vicino.
Se insegnassimo questo, allora permetteremmo alle persone, specie alle nuove generazioni, di vivere nel rispetto di se stessi, degli altri, della natura. Impareremmo a rinascere ogni giorno proprio dalle cose che perdiamo. Saremmo meno arroganti e presuntuosi, meno possessivi e più oblativi. Nessuno assolutizzerebbe il proprio ego. Saremmo predisposti anche a perdonarci le reciproche fragilità segno di quella morte che come un limite invalicabile nessuno può oltrepassare.
Vista così, la morte cambia registro: da perdita, abbandono e radicale separazione, si trasforma in consegna e restituzione. Non toglie senso alla vita, ma, al contrario, glielo restituisce con una densità e intensità ancora più forti.
E, allora, l’unico modo per vincere la morte è giocare d’anticipo, amando. Si, perché quando verrà, la morte ci porterà via tutto, tranne ciò che abbiamo donato, perchè, per chi ha donato tutto, quando verrà, la morte non troverà più niente da portare via, neanche le persone che abbiamo amato, in quanto, come dice il Cantico dei Cantici, “Forte come la morte è l’amore”.
E così scopriamo che solo l’amore spoglia la morte prima che essa spogli noi, visto che essa non potrà mai spogliare coloro che troverà già spogli, coloro che, spogli di tutto, saranno trovati ricchi di ciò che hanno saputo donare.
E, allora, che questa commemorazione dei defunti, dove ricordiamo i nostri cari, sia per tutti l’occasione per imparare dalla morte il senso più profondo del mistero della vita! Insomma, una “ars moriendi” che ispira anche una “ars vivendi”.
A cura di Michele Illiceto
Non crisantemi ai defunti ma confezioni di fiori per valori toali di milioni di euro. La corsa forsennata a chi fa più bella figura. Tranne pochi… e nei luoghi sacri si dovrebbero evitati abiti succinti.
Ooohhh, finalmente una nuova foto di Illiceto! 👍😂