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Fenice, un caso di (a)normale inquinamento

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
16 Maggio 2011
Capitanata //

L'area della Fenice; in rosso, i pozzi di emungimento (googlemaps)
Lavello – LA Fenice è un inceneritore. Per la precisione, il più grande inceneritore europeo. E’ situato nella zona industriale di San Nicola di Melfi. Nel 1999, la Fiat l’ha messo in funzione (il ricatto è in marchionnese: o accettate l’inceneritore o addio posti di lavoro). A Sud, ovviamente, dopo aver tentato, invano, di insediarlo in Piemonte, nella zona di Biella. Le ceneri della Fenice-inceneritore, non sono quelle della Fenice-volatile. In questa zona bellissima e sciagurata, tuffata nel verde della Lucania settentrionale, con vista privilegiata su Daunia e Campania, le ceneri sono sinonimo di morte, di malattie. Le vite non rinascono, s’interrompono.

L’OFANTO – Fenice, che ha due forni, uno a griglia ed uno rotante, opera a cielo aperto. A sei chilometri da Lavello, il centro abitato più vicino, a tre dal fiume Ofanto. Corso d’acqua fra i più grandi dell’Italia meridionale, le cui acque sono utilizzate per l’irrigazione dei campi di tre regioni: Puglia, Basilicata e Campania. Inutile spiegare che, le ceneri, s’immettono nel ciclo dell’acqua depositandosi infine, senza colpo ferire, sulla superficie del fiume causando danni irreparabili. Di più. La Fenice è anche responsabile dell’inquinamento di una falda acquifera che, guarda caso, scorre sotterranea proprio in direzione dell’Ofanto.

I PROBLEMI – La segnalazione giunge a Stato anonima. E proviene dallo sterminato paesaggio del Basso Tavoliere, sponda cerignolana. Da queste parti, di campagna si vive. La coltivazione continua ad essere l’elemento preponderante dell’economia. E, in generale, dell’area compresa fra il centro divittoriano e la città di Foggia. L’inquinamento delle falde o, comunque, dell’oro blu utilizzato per l’irrigazione è vista come una tragedia. Nessuno lo può dire, nessuno può esporsi apertamente. In ballo, in questa storia, ci sono intere partite di prodotti ortofrutticoli. Quegli stessi prodotti che venivano immessi sui mercati internazionali, Germania in primis. E che, adesso, pare stiano iniziando ad essere rispediti al mittente. Mettere in giro la notizia, oltrepassare il filtro del silenzio, potrebbe voler significare la bancarotta. Qualcuno, come R.F., abbozza un timido “Può darsi”, onde poi rifiutare anche soltanto di approfondire. Dovesse essere confermata – come pare lo sia – la notizia della contaminazioni da metalli pesanti dei prodotti agricoli del Basso Tavoliere e della prima Murgia barese, la morte dell’economia autoctona sarebbe ineluttabile. Ecco perché, al momento, fra agricoltori e produttori vige il più assoluto riserbo. Pur montando la rabbia verso l’avvelenatore. Non va dimenticato inoltre che non si è lontani dal vulcano spento del Vulture. Ovvero, da quel terreno produttivo di acque in bottiglia che, al consumatore, vengono spacciate come sane.

A destra, Nicola Abbiuso (St)
LE CIFRE – La Fenice è un cancro. Nel solo anno 2009, stando agli ultimi dati emessi dal rapporto dell’ISPRA (si attendono a giorni i nuovi, quelli riferiti al 2010), ovvero l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, su 39.614 tonnellate trattate, ben 20.884 sono di rifiuti pericolosi. Di questi, non tutti sono di provenienza nazionale. Alcuni viaggiano dalle lande francesi. Il rapporto ISPRA afferma che i rifiuti pericolosi bruciati in Italia nella ambito dei R.U. sono 54 mila tonnellate di questi 34.482 sanitari ed ospedalieri e 19.907 di altra natura, questi ultimi – si evince – tutti bruciati a Fenice. Di più, alla Fenice, malgrado manchi del tutto ogni sorta di autorizzazione in questo senso, ed anzi, la stessa Provincia di Potenza, non più tardi della fine di gennaio di quest’anno abbia espressamente posto un freno per mancanza di autorizzazione, vengono smaltiti anche diversi quantitativi proprio di materiale sanitario. Lo dice lo stesso Ispra, ovvero il Ministero, nel rapporto succitato. Nel 2008, a Melfi ne sono state smaltite, certe, 978.

E LE CARTE? – Il tutto, quasi a coronamento, senza la certificazione necessaria. Nel 2000, infatti, la Regione Basilicata rilascia alla Fenice spa, all’epoca società di gestione dell’inceneritore (poi, con un’opera di perfetto maquillage, da pochissimi mesi passata alla Fenice srl – mentre la proprietà rimane nelle mani della società transalpina – con capitale sociale di appena 50 mila euro e con oltre 50 operai sul groppone), l’Autorizzazione Integrata Ambientale. Tuttavia è un provvedimento temporaneo, limitato nel tempo e ridotto a cinque anni. Nel frattempo, anno 2001, la ditta viene venduta all’Edf che gestisce al di là delle Alpi svariate decine di centrali nucleari ed è, in un qualche modo, l’interfaccia silenziosa della Edison.

AIA – Prima del rilascio della concessione definitiva dell’AIA, l’Ente lucano si riserva di monitorare la situazione. Ma i controlli sono ballerini, quando non del tutto inesistenti. Di volta in volta, nessuno si oppone allo strapotere del duopolio Edf-Fiat, malgrado le tante interrogazioni parlamentari, e malgrado inizi a scendere in campo l’attivismo della cittadinanza di Lavello. Che si inizia a chiedere chi e perché abbia dato inizio al sistema perverso per cui, la popolazione di 19 paesi dell’Alta Basilicata, ovvero del Vulture, sono tenuti, a partire dal 2000, a smaltire i rifiuti non mediante strumenti pubblici, ma per mezzo dell’inceneritore melfitano. Una contraddizione che monta e che cresce anno dopo anno, con punta nel 2009. E’ l’anno in cui i danni si moltiplicano. E, guarda caso, è lo stesso anno in cui il Comune di Melfi si vede costretto ad emanare un’ordinanza di non utilizzo dell’acqua dei pozzi. L’acqua è insicura e non ci sono le condizioni per operare in igiene. Passano due anni e, a gennaio 2011, così, è la Provincia di Potenza a mettere le cose in chiaro. Con un comunicato stampa secco ed inequivocabile, precisa che l’AIA – undici anni dopo! – “non [è] ancora rilasciata”. E che l’impianto è stato, appunto, autorizzato ad operare “con Determinazione Dirigenziale della Regione Basilicata n. 75F/2000/D/498 del 19.10.2000 (durata anni 5), successiva Determinazione Dirigenziale di questo Ufficio n. 2986 del 19.10.2005 di rinnovo (durata anni 5), ed in ultimo con Determinazione Dirigenziale di questo Ufficio n. 3065 del 14.10.2010”. In realtà, Fenice ha presentato richiesta soltanto nell’anno 2006, precisamente il 31 marzo, Richiesta che, ad oggi, è ancora in “corso di istruttoria”.

L’AUMENTO DI CAPIENZA – Ed una cosa particolarmente strana è che, a distanza esatta di un quinquennio, l’ultimo giorno di marzo di quest’anno, la Fenice, dopo aver accettato (a chiosa di un tavolo tecnico svoltosi a Potenza ed a cui hanno preso parte Comune di Melfi, Regione Basilicata, Provincia di Potenza, Arpab, Asp e Fenice ovviamente) di svolgere un’analisi di rischio, decide che è giunto il momento di dare un’accelerata. In quel momento, essendo i valori in calo, l’impresa lascia passare il messaggio dell’impatto zero sull’ambiente. Come dire: “Ad inquinare l’acqua non siamo stati noi”. E presenta addirittura una proposta di aumento della capienza di uno dei due forni (quello a griglia), chiedendo – la risposta deve darla la Regione – di passare dalle attuali 30 mila tonnellate annue a 39 mila. Più incenerimento significa più rifiuti, più rifiuti più energia, più energia più acqua. Si calcola infatti che, oltre ad inquinare, la coppia Fenice-Edf e Fiat, sprechi una quantità di liquido vitale pari a 12,5 milioni di metri cubi all’anno. E si tratta di acqua assolutamente potabile.

SALUTE – Non basta. Dai 200 camini della Fiat, più da quelli di Fenice vengono fuori quantità enormi di nano particelle (12 milioni di metri cubi all’ora di fumi sono immessi nell’atmosfera). Il che incide in maniera diretta ed inequivocabile sulla salute. Ma, anche in questo caso, i controlli non sono bastevoli. Uno degli animatori del Comitato per la Salute di Lavello, Nicola Abbiuso, ci dice che “le ultime stime risalgono al 2006”. E sono certamente parziali. Fanno in effetti i conti soltanto sull’aumento dei tumori (sono esplosi quelli alla prostata, al colon ed allo stomaco in sugli uomini; mammella, fegato e retto per le donne; ma, a parte qualche raro caso, quasi tutti gli organi sono colpiti). Al contrario, le nanoparticelle provocano allergie e serie ripercussioni sul sistema cardiocircolatorio, aumentando il rischio d’infarti. Ma l’Asp latita. Ed anche il Crob di Rionero in Vulture, uno dei maggiori centri in Italia in materia oncologica, in effetti fa poco. “Su cinque persone ricoverate al Crob – stima Abbiuso a Stato – tre sono di Lavello”. Tutto questo l’Arpab lo sa e, per anni, lo nasconde. O, per lo meno, fa finta che il problema non sussista. Tanto che, interpellato dalla stampa e sollecitato dai comitati pubblici, l’ex Direttore dell’Ufficio per l’ambiente della Basilicata, Vincenzo Sigillito, è costretto ad ammettere l’evidenza. Ovvero sia del fatto che l’Arpab era a conoscenza, già nel 2007, del problema dell’inquinamento delle falde ofantine. Quel che, al contrario, appare strano, è che, invece, lo stesso Sigillito, il cui atteggiamento è sempre stato alquanto ciondolante rispetto alla questione, afferma che l’Ufficio non dispone dei dati sul monitoraggio dell’area Fenice nel quinquennio 2002-2006.

I METALLI PESANTI – Nel corso del tempo, ad aumentare – e a preoccupare – è soprattutto la presenza di metalli pesanti, inquinanti per le acque, dannosi per la salute. Cromo, nichel e mercurio sono costanti rilevate nelle acque dei nove pozzi di emungimento collocati alle spalle dell’impianto. A seconda della rilevazione, i loro valori mutano. L’ultimo rilevamento, risalente ad un paio di mesi fa, ha visto un netto abbassamento dei valori. Tuttavia questo è dovuto alla realizzazione della cosiddetta barriera idrica. Ovvero di una serie di pozzi che, nei fatti, depurano l’acqua alterando la veridicità dei valori del campione rilevato.

Le apparenze – e solo quelle – sono salve.

p.ferrante@statoquotidiano.it

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