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Macondo – La città dei libri

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
27 Maggio 2011
Stato news //

“Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. (Gabriel Garcia Marquez)
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∞ Con le ali di Jac ∞
di Piero Ferrante

Prendete una mela, dividetela in due parti. Due parti uguali, diverse ma complementari. Se provate, poi, a farle combaciare, parallele come sono e perfettamente nettate da una lama spietatamente precisa, una ghigliottina in scala minore, ne otterrete il tutt’uno originale, la forma lucida e perfetta, la precisa riflessione nello spazio dell’idea del peccato originale. L’uno non è senza le parti. E le parti se non fuse non saranno mai uno.

L’“Autobiografia mai scritta” di Benito Jacovitti (editata da Stampa Alternativa e raccolta dal più eccezionale dei conoscitori del fumettista molisano, Antonio Cadoni) è la fusione delle due parti del frutto. Sintesi di scritti e strisce, il librone sprizza colore ad ogni pagina. Anche quando non fa che raccontare, nel fluire apparentemente omogeneo del discorso dell’illustratore, emana una sensazione di tepore. Un abbraccio iridato che avvinghia.

Perché Jacovitti è uno così. Cattura con il particolare, per quella passione che ne contraddistingue la biografia e la carriera. I primi disegni tratteggiati sulle pietre, quando l’arte non era che un gioco, una forma di consociazione con gli altri, una maniera per riprodurre il mondo con gli occhi e le mani di un bambino. Ingenuo. Tanto ingenuo da essere credibile. E pungente, sordo ad ogni richiamo della disciplina. Un padre ferroviere e fascistemente fascista, camicia nera ed abito da cerimonia al sabato. Che non poteva indossare per non cadere nella rete sfottente ed irriverente del piccolo Benito. Il quale, a sua volta, la prima illustrazione la pubblicò su un giornaletto fascista che manco dieci anni erano suonati alla campana dell’esistenza. Poi, la raffigurazione censurata di Italo Balbo, l’eroe aviatore con le mostrine falce e martello – simbolo che Benito aveva copiato incoscientemente da un foglio satirico fascista -, le botte dei camerati ai tempi del “Vittorioso”, i sacrifici, il trasferimento in Toscana. Disegnare di nascosto e di nascosto portare le tavole a Roma, la missione. Sono i mesi in cui nascono Pippo, Battista l’ingenuo fascista, Cin Cin, Pinocchio, strisce varie ed eventuali ben prima del botto Cocco Bill; sono i mesi della Liberazione, degli americani che lo prelevano per portarlo a Sacile, gli fanno disegnare qualche vignetta satirica e, trovatala eccessivamente canzonatrice, la boicottano. E lasciata Sacile finire di nuovo in Toscana, alla ricerca di una vita da costruire, testualmente, con la forza delle mani.

Autoironico, Jacovitti. La sua descrizione, di sé, è questa: “Stazza lorda chilogrammi 95 (abbondanti); altezza metri 1,86; larghezza in proporzione; profondità (di pensiero) immensa”. Deciso, Jacovitti: “Io sono un clown, un pagliaccio. In genere i fumettari sono tristi oppure soli o magari matti, io sono triste, solo e matto da quando ho iniziato a disegnare […] scegliendomi il destino dio scherzare sul sesso, sulla mafia, la politica, i bellimbusti”. Speranzoso, Jacovitti: “Continuerò a disegnare nell’aldilà”. Fustigante Jacovitti. Libertario e liberale, l’uomo dei salami e delle lische di pesce. Anticomunista, antifascista. Per lui il fascismo non era che un gesto goffo e roboante: braccia tese e corna invece delle mani altrettanto inturgidite dall’impeto razzista e vigoroso. Per qualche tempo, disegnò per la Dc, prima per il Msi. Nulla di politico, questione di soldi e simpatie personali. Con evidente rabbia della Chiesa, ebbe l’ispirazione di reinterpretare, a suo modo, il Kama Sutra.

Nessuno come lui fu capace di spaziare dall’ingenuità dei fumetti per bambocci, a Play Boy. Pure, senza grilli di boria a saltellare nella capoccia per frinire in una compilation di altezzosità. Jacovitti creò, guadagnò, visse con tutto l’entusiasmo possibile. Un libro non basta a contenerne le gesta. Occorrerebbe come minimo un romanzo, forse un poema epico. Eppure Cadoni ha il grande merito di non lasciarsi andare a sentimentalismi vacui, con un notevole guadagno di spazio per la sostanza. Lascia che a parlare sia il parlare di “Lisca di Pesce”: quel parlare che è intermediazione tra la farneticazione e la semplicità di chi sa di avere dalla sua parte l’argomentazione del talento innato e di una creatività che varca l’orizzonte della norma. Ne vien fuori un’opera gradevole, istruttiva, a tutto tondo. Sinuosa come un arco e diretta come un pendolino. Chiuderla è un dispiacere, non fosse per la bellezza della copertina, gialla ed attraente. Un anticipo.
Benito Jacovitti, “Autobiografia mai scritta” (raccolta da Antonio Cadoni), Stampa Alternativa 2011
Giudizio: 3.5 / 5 – Mitico Jac
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∞ Svetlana abita qui ∞
di Roberta Paraggio

Bebi, Jing Jing, Chanda e le altre hanno preso parola, togliendo reticenze ed intermediazioni si sono raccontate in questo saggio edito da Ediesse in collaborazione con l’associazione Salva con nome dal titolo Voci di donne migranti.

Hanno formato un coro che monologa e dialoga col lettore, 21 donne, 21 storie in una Roma paradigma di qualsiasi grande città che accoglie e respinge, include ed esclude. 21 identità in balìa del viaggio, bistrattate come una vecchia e logora valigia mille volte aperta, mille volte chiusa, sempre alla ricerca di qualcosa che spesso non è mai arrivato, quell’altrove fatto di sicurezza economica, cittadinanza, dignità, o del semplice riconoscimento di studi e sacrifici fatti nel paese d’origine.

Un libro che partendo da domande semplici avvia alla narrazione di vissuti complessi. Vite che si trovano sempre a metà strada, su un ponte in cui si gioca il tiro alla fune, da un lato a tirare c’è l’integrità della proprie tradizioni, dall’altro la volontà di integrazione. Donne sole, impaurite, donne forti, donne fuscello e donne arbusto, nere, arabe, musulmane, cinesi, donne a cui affidiamo i nostri nonnetti. “Le polacche”, “le filippine”, donne sostantivo portatrici di un’identità che coincide col lavoro svolto, donne di cui dimentichiamo il fardello di addii e ritorni che si trascinano dietro insieme al bagaglio scarso con cui arrivano, soggettività in pericolo di dispersione che non si è capaci di ascoltare, con cui non ci si riesce a confrontare se non attraverso il filtro dello stereotipo o della visione utilitaristica.

Donne che sono diventate madri nel nostro paese, è infatti la maternità la parola magica intorno alla quale ruotano tutte le storie, l’evento corale per eccellenza che si trasforma in assolo ospedalizzato ed asettico, scoglio ulteriore di solitudine nella vita di queste piccole donne migranti. Si raccontano sussurrandosi all’orecchio le proprie esperienze, da Chanda ad Oliva, da Sarah che ha vagato nel deserto col pancione a Mily che combatte ogni giorno contro la marea, dal Perù all’Egitto, dalla Costa d’Avorio alle Filippine fino alla Romania si compie n viaggio immaginario, si osservano le figure che lentamente si stagliano nel buio, a rompere un silenzio che adesso si lascia ascoltare nelle sue diverse cadenze, che da unisono diventa voci.
Claudia Carabini-Dina De Rosa-Cristina Zaremba (a cura di), “Voci di donne migranti”, Ediesse 2011
Giudizio: 3,5 / 5 – Madrematria

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∞ La cerulea dendroica ∞
di Angela Catrani

Ho letto con gusto, piacere e golosamente Libertà di Jonathan Franzen nella bellissima traduzione di Silvia Pareschi. L’ho letto come si potrebbe leggere un romanzo proveniente da un altro pianeta, perché non sono americana, non sono mai stata negli Stati Uniti e sinceramente capisco poco gli americani quanto poco loro capiscono la nostra mentalità italiana. E devo dire che la traduttrice ha fatto un lavoro eroico per traslare gli aspetti più tipicamente nordamericani e ricondurli al nostro angusto stivale. Quel senso di sconfinata enormità della natura, per esempio, possiamo solo immaginarla, la grandiosità di vedute del miliardario americano, poi, certo non corrisponde a nulla di nostrano, dato che noi italiani ci accontentiamo, in generale, della villa in Sardegna o di festini più o meno leciti in cui sperperare i milioni di euro accumulati.
In questo romanzo, invece, un miliardario assume un appassionato di uccelli per realizzare un immenso parco faunistico per salvaguardare la cerulea dendroica, un delizioso minuscolo passerotto che potrebbe rischiare l’estinzione a causa della selvaggia devastazione compiuta dall’industria del carbone. Non prima, però, di avere raso al suolo le cime di alcune tra le più belle montagne del West Virginia per assicurarsene l’estrazione carbonifera. Praticamente, prima ti distruggo la montagna poi ti ci faccio un parco…

Mi sono buttata e Franzen mi ha preso al volo.

Perché questo libro racconta la storia dettagliata, precisa e netta della vita di quattro persone coinvolte tra loro in vario modo intorno al misterioso uccellino azzurro, talmente insignificante, diciamocelo, pur nella sua carineria, da diventare il simbolo della distorsione con cui possono apparire le cose viste con un binocolo rovesciato.

La storia procede per gradi, e lo fa prendendo i punti di vista di tutti i personaggi coinvolti, senza apparentemente favorirne uno rispetto a un altro.
Naturalmente ogni persona è talmente complessa, talmente parte di un vissuto proprio e altrui, che quello che emerge è poi solo la punta di un iceberg di ognuno di loro.

Walter e Patty sono sposati, e sono la tipica coppia della borghesia media, lui avvocato impegnato in una ONG a difesa della natura, bravissimo marito, padre attento, vicino solerte e affettuoso, lei casalinga, impegnata nella difesa del suo territorio, dei suoi bambini, sorridente vicina premurosa, mai polemica.

Ma l’apparenza, che come una coperta sempre un po’ troppo corta lascia inesorabilmente scoperti i piedi, crepa quando i vicini di casa si accorgono che Patty è spesso ubriaca, quando Joey, il figlio, a quindici anni abbandona la famiglia e si trasferisce in casa della fidanzatina, quando Walter va a lavorare a Washington e la casa viene messa in vendita. Poi una notizia bomba rivela ai vicini attoniti che Walter “più verde di Greenpeace e cresciuto in campagna” era “finito nei guai per connivenza con l’industria del carbone ai danni dei contadini”. Assurdo.

Ed ecco che entrano in gioco Richard, musicista trasgressivo e fragile, vecchia passione amorosa di Patty e migliore amico di Walter, e Lalitha, la giovane bellissima ed entusiasta assistente di Walter.

Il mondo crolla intorno a loro, le certezze sgretolano, la depressione incombe.

I grandi romanzieri della fine dell’Ottocento, europei e americani, a questo punto, spinti dal romanticismo catastrofico e compiaciuto di cui ancora non si erano liberati, avrebbero, probabilmente, messo la parola fine al climax della mala sorte in cui cadono tutti i protagonisti, ma la realtà, in generale, dà sempre la possibilità di riemergere, più o meno a pezzi, dalle catastrofi, e dunque il finale è piacevole perché regala una speranza, una possibilità ulteriore, uno spiraglio verso l’incanto e verso quella famosa Libertà che se non dà la felicità, pure ci pone nelle condizioni di crearcela.
Jonathan Franzen, “Libertà”, Einaudi 2011
Giudizio: 5 / 5 – Epico

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I LIBRI CONSIGLIATI DA STATO QUOTIDIANO
IL ROMANZO: Peppe Lanzetta, “Infernapoli”, Garzanti 2011
IL SAGGIO: Xinran, “Le figlie perdute della Cina”, Longanesi 2011
IL CLASSICO: Joao Guimares Rosa, “Grande Sertao”, q.e.

JEFF, LA GRAZIA NELLA VOCE DI UN ARTISTA SOLO. (29 MAGGIO 1997 – 29 MAGGIO 2011)
Jeff Apter, Jeff Buckley, “Una goccia pura in un oceano di rumore”, Arcana 2010
Chiara Papaccio, “Jeff Buckley”, Giunti 2009
Giulio Casale, Luca Moccafighe, Dark Angel, “I testi di Jeff Buckley”, Arcana 2007

I LIBRI PIU’ VENDUTI DALLA LIBRERIA EQUILIBRI
1. Carlos Ruiz Zafon, “Le luci di settembre”, Mondadori 2011
2. John Stephens, “Atlante di smeraldo”, Longanesi 2011
3. Susanna Tamaro, “Per sempre”, Giunti 2011

LIBRI… IN EQUILIBRI OMAGGIO ALL’UNITA’
di Libreria Equilibri
AA.VV., “Cronache dell’Unità d’Italia”, Mondadori 2011
Questo volume è una raccolta meticolosa di articoli pubblicati sui quotidiani e sulle riviste con l’intento di ripercorrere il periodo storico che va dalla Seconda guerra d’indipendnza del 1859 fino al Regno d’Italia nel 1861. Un viaggio attraverso tutto il processo di riunificazione arrivato a noi grazie alla testimonianza dei cronisti del tempo che si trovarono a raccontare i fatti in tempo reale. Alternati agli articoli e ai reportage di tutti i principali giornali nazionali ed internazionali sono presenti articoli e commenti delle maggiori personalità dell’epoca come Giuseppe Mazzini, Massimo d’Azeglio, Luigi Settembrini, Carlo Collodi, Ippolito Nievo, Giosuè Carducci o Alexandre Dumas. Una raccolta di visioni e di narrazioni che danno un quadro completo della realizzazione dell’Unità d’Italia.

Giuseppe Mazzini, “Dei doveri dell’uomo”, Rizzoli 2010
La libertà non esiste senza uguaglianza, ma non esistono né uguaglianza né libertà senza una profonda coscienza dei doveri a cui tutti siamo chiamati. E così che Mazzini condensa le sue riflessioni e aspirazioni in quell’anno cruciale che è il 1860. La sua è la ricerca ostinata di una via al progresso che coniughi la legittima rivendicazione dei diritti a un senso profondo di appartenenza alla nazione e all’umanità intera, perché “tra l’egoismo e lo schiavo non è che un passo”. Audace, rivoluzionario e inascoltato, il pensiero di Mazzini è il pensiero di uno sconfitto, una sconfitta che ha ancora molto da dire sullo stato nostro Paese.

De Pascalis-Sanvito, “Camicie rosse, storie nere. Tredici giallisti per mille garibaldini”, Hobby and Work 2011
Alexandre Dumas, padre dei “Tre Moschettieri” e grande amico di Giuseppe Garibaldi, seguì la spedizione dei Mille come giornalista. Eppure ci furono storie che non volle mai raccontare: storie gialle e nere, naturalmente. Nessuno ha mai conosciuto i motivi del suo silenzio; forse erano racconti troppo efferati; o forse avrebbero messo in cattiva luce l’impresa dei Mille; o magari coinvolgevano nomi intoccabili… Fatto sta che lo scrittore francese scelse di “dimenticarsi” di molti episodi dell’epopea garibaldina, base fondativa dell’unificazione del nostro Paese. A recuperare dall’oblio il “lato oscuro” dei Mille provvedono ora, in un’ardita e irriverente fusione di verosimiglianza storica e fiction letteraria, tredici giallisti italiani, forti dell’appoggio di un siciliano d’eccezione: Andrea Camilleri. Il risultato è un mix di rievocazione filologica e invenzione narrativa, una cavalcata senza freni lungo le vie che dallo scoglio di Quarto arrivano fino al Regno di Napoli. Crimini, misfatti, tradimenti, omicidi da risolvere, congiure da sventare, suspense, azione, colpi di scena ad ogni pagina. Insomma, una rilettura a tinte forti di quella avventurosissima spedizione che rappresentò il punto più alto del nostro Risorgimento.

[A cura di Piero Ferrante e Roberta Paraggio. In collaborazione con la Libreria Equilibri di Manfredonia]

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